LE MICROPLASTICHE DENTRO DI NOI

Ne abbiamo avuto conferma ufficiale: le materie plastiche non solo hanno invaso terre e mari di tutto il pianeta, ma sono entrate anche nella corrente sanguigna di molti animali, noi umani compresi.

Lo hanno dimostrato ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam, dandone notizia nel marzo 2022: lo studio è stato pubblicato sulla rivista Environment International, ad opera di Heather Leslie, ecotossicologa (specializzazioni nuove, nell’ambito scientifico, correlate ai tempi in cui viviamo!) e Maria Lamoree, chimica analitica. E naturalmente l’annuncio ne è stato dato con slancio ed entusiasmo, come è giusto che sia da parte di chi ha lavorato per anni alla ricerca: “Abbiamo finalmente dimostrato la presenza di microplastiche nel sangue, il nostro fiume vitale per così dire”. Sicuramente una conquista scientifica…  ma purtroppo anche un segnale di allarme. Ancora ne ignoriamo la portata, rimane da capire se e con quale facilità le particelle di plastica possono passare dal flusso sanguigno agli organi.

I numeri assoluti dello studio non sono alti, ma la percentuale è significativa: dei 22 soggetti volontari sottoposti a prelievo di sangue, 17 sono risultati positivi per la presenza di particelle di plastica.

Si parla genericamente di microplastiche che, per definizione della European food safety authority, sono particelle di dimensioni tra 0,1 e 5.000 micron (µ):

I frammenti di misura inferiore, non rilevabili dall’occhio umano  e compresi tra 1 millesimo e 1 decimo di micron, costituiscono le  nanoplastiche.

Granuli di plastica

Le materie plastiche vengono definite come materiali organici a elevato peso molecolare, costituite da molecole con una catena molto lunga (macromolecole). Si tratta di una unità-base, il monomero, che si ripete concatenandosi indefinitamente, puro o miscelato con additivi . La IUPAC (Unione internazionale di chimica pura e applicata) raccomanda l’utilizzo del termine polimeri invece di quello generico di plastiche. I polimeri più comuni sono prodotti a partire da sostanze derivate dal petrolio.

(Ricordiamo che già nel 1920 il chimico tedesco Hermann Staudinger aveva ipotizzato la struttura macromolecolare delle materie plastiche e la loro polimerizzazione, ricevendo poi il premio Nobel proprio per questi studi nel 1953)

I polimeri identificati nel sangue umano dallo studio olandese sono  

   Polietilen-tereftalato PET

   Polimeri di stirene PS, EPS

   Polietilene PE

   Polimetilmetacrilato PMMA

Qualche soggetto ne aveva in circolo anche due o tre tipi insieme.

La concentrazione complessiva di microparticelle nei 22 donatori è stata in media di 1,6 µg/ml: una quantità che gli scienziati hanno paragonato a un cucchiaino di plastica in 1.000 litri di acqua.

   IL PET è POLIETILEN-TEREFTALATO, un polimero termoplastico* che appartiene alla famiglia dei poliesteri. E’ un materiale di grande resistenza chimica e capacità di barriera, solido, rigido ma anche stendibile in fogli, leggero, resistente; viene utilizzato per circa il 70% nella produzione di bottiglie per bevande e liquidi alimentari; nella produzione di vassoietti per cibi precotti e pronti per l’uso in forni a microonde; contenitori per snack, frutta secca, dolciumi, confetteria; confezionamento sotto vuoto di formaggi, carni, caffè e altro ancora…

La resina PET è oggi il polimero plastico più riciclato, e quindi è continuamente riutilizzato.

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*le resine termoplastiche sono quelle che mantengono una elevata plasticità a caldo, si possono ridurre a fogli che poi vengono modellati;

termoindurenti quelle che, dopo una prima fase plastica, subiscono una modificazione chimica che le rende rigide, come ad esempio le resine epossidiche.

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Il POLISTIRENE è il polimero dello stirene. È un polimero termoplastico dalla struttura lineare, detto anche polistirolo, e questo suo nome ci è sicuramente più familiare.

Materiale moderno e molto usato per svariati oggetti e soprattutto negli imballaggi, non è di scoperta recente: lo aveva distillato  nel 1839, dalla resina del Liquidambar orientalis, lo speziale berlinese Eduard Simon.

Il Liquidambar  è un bell’albero con le foglie simili a quelle dell’acero, e già il nome, da liquidus e ambar (ambra in arabo)  è indicativo delle sue proprietà, note fin dai tempi più lontani, con riferimento alla resina profumata che se ne ricava e ancor oggi reperibile nei mercati greci e turchi con il nome di storace. Ma il nome antico era Styrax, e così il dottor Simon chiamò styrol quella sostanza oleosa e Styroloxyd quella specie di gelatina che ne era progressivamente derivata lasciandola esposta all’aria per qualche giorno.

Lo storace, dal lat. storax -ăcis, variante tardiva di styrax -ăcis,  στύραξ -ακος, è una resina vegetale che proviene dal Liquidambar orientalis.

Nel 1845 i chimici Blyth e Hofmann indicarono come metastirene una sostanza identica allo Styroloxyd, e vent’anni dopo si dimostrò che si trattava di un processo di polimerizzazione.

Storia vecchia, dunque, per un materiale attuale, con cui si realizzano posate e piatti e barattoli per alimenti, ma anche custodie per CD e DVD, targhe, svariati oggetti in “vetro sintetico”, come le piastre di Petri e le provette nei laboratori di analisi, in progressiva sostituzione degli analoghi manufatti in vetro.

E anche nei laboratori d’arte, nelle fusioni di fonderia realizzate “a cera persa” si può ora procedere con il processo lost foam, “a schiuma persa”, più semplice e rapido: mentre la cera va sciolta e poi fatta uscire dallo stampo, il polistirene a contatto con il metallo fuso sublima e sparisce, lasciando la cavità vuota e pulita

Il polistirolo espanso ESP è bianco, leggero, spesso modellato in sferette o chips, e viene usato per l’imballaggio e l’isolamento.

Si tratta dunque di un polimero di notevole importanza commerciale e non si pensi che, per far fronte alle esigenze di mercato, si possa ancora ricorrere ai vecchi e complessi metodi di estrazione naturale dalla resina del Liquidambar: è necessario produrne in quantità considerevoli, e si procede quindi per sintesi industriale, partendo da benzene ed etilene di provenienza petrolifera.

Il POLIETILENE (PE) è il polimero dell’etilene

L‘etilene (nome IUPAC: etene) ha una formula chimica molto semplice: C2H4. Sono due atomi di carbonio legati a quattro atomi di idrogeno

A temperatura e pressione ambiente si presenta come un gas incolore estremamente infiammabile, dal lieve odore dolciastro, un po’ da fermentazione. È la molecola di partenza per moltissimi intermedi industriali, precursori di migliaia e migliaia di prodotti chimici.

Anche qui, storia vecchia: si potrebbe pensare a questa sostanza come a qualcosa di estremamente moderno, attuale, ma l’etilene era stato identificato già nel 1795 come “gas di olefina”, e John Dalton, chimico inglese, ne propose la formula di struttura nel 1806.

Ricordiamo tra l’altro che, per il suo effetto narcotico e miorilassante, venne usato come anestetico dagli anni ’20 (per la prima volta a Chicago nel 1923)  fino al 1940 circa.

Si  consideri inoltre che l’etilene è ampiamente presente in natura, dato che una delle sue funzioni più importanti e insostituibili è quella di essere un fitormone, ovvero un ormone delle piante, che lo sintetizzano dall’aminoacido metionina. Come ormone, influisce sulla germinazione e sull’invecchiamento della pianta, provoca la maturazione dei frutti e lo sviluppo dei germogli, la caduta delle foglie in autunno e la morte di parti della pianta. Nella produzione di OGM vegetali si è lavorato molto su questo aspetto: ad esempio, dalla metà degli anni novanta del secolo scorso sono stati coltivati pomodori particolarmente durevoli perché il loro gene per la produzione dell’etilene è stato bloccato, e quindi possono essere fatti maturare su richiesta, proprio mediante esposizione a gas di etilene.

Nel mondo vegetale, la produzione di etilene è essenziale come “segnale d’allarme” chimico-fisico in caso di infestazioni da parte di parassiti nonché di traumi o strappi. Insieme ad altre sostanze come l’acido salicilico, l’etilene marchia la zona danneggiata e stimola quindi la produzione di fitotossine in modo da isolarla dalla parte sana. Essendo un gas si diffonde rapidamente e mette in stato di all’erta non solo la pianta danneggiata ma anche quelle vicine, stimolando reazioni di difesa a cascata.

Comunque, tornando alla sua veste chimica ufficiale, l’uso principale dell’etilene resta quello che prevede la reazione con se stesso, per formare appunto il proprio polimero, il  Polietilene (PE) che nei suoi tre tipi ( bassa densità, lineare e alta densità) è la materia plastica più prodotta al mondo. E tanto si è diffusa, che ormai circola anche nel nostro sangue.

Il chimico tedesco Karl Ziegler lo aveva sintetizzato nel 1953. Proprio per i suoi studi sui polimeri, Ziegler otterrà il Nobel per la chimica nel 1963, insieme al chimico italiano Giulio Natta che nel 1954 aveva prodotto il polipropilene, commercializzato come Moplen.

PMMA o POLIMETILMETACRILATO

Il polimetilmetacrilato o PMMA è un polimero termoplastico: il suo monomero è il metil metacrilato.

È noto anche con i nomi commerciali di Plexiglas, Perspex,  Lucite …  

Il primo Plexiglas fu prodotto nel 1933 in Germania da Otto Röhm e la prima lente a contatto in materiale plastico fu creata, nel 1939, proprio in PMMA.

Nel 1936 l’inglese ICI Acrylics produsse la prima lastra acrilica e la chiamò PERSPEX, dal latino perspicio, vedo attraverso, a sottolineare la straordinaria trasparenza del PMMA, un materiale innovativo più leggero, più  resistente e più trasparente del vetro: queste proprietà ne favorirono la rapida diffusione in molti settori, compresa la costruzione dei cupolini degli aerei.

Se consideriamo quindi la versatilità di questo materiale, che passa dalla biocompatibilità con i tessuti umani (lenti a contatto, ma anche “cemento” per riparare ossa e denti)

Lente a contatto

Controllo TAC di vertebre trattate con vertebroplastica percutanea

alle proprietà strutturali che lo rendono adatto ad una infinità di applicazioni, dal rivestimento di vasche da bagno e lavelli alla miglior soluzione anti-urto al posto del vetro (spessore fino a 33 cm per le vetrate degli acquari!)…

si può comprendere quanto ne sia diffuso l’uso nel mondo.

E comunque, ci serviva proprio questa scoperta dei polimeri circolanti nel sangue per renderci conto del rischio ambientale nel quale siamo ormai sempre più coinvolti?

Le possibili ripercussioni sulla salute umana – e non soltanto umana: del pianeta intero… –   per esposizione a sostanze chimiche sono un  tema drammaticamente ricorrente, abbiamo vissuto a livello mondiale le segnalazioni dei grandi inquinamenti che si affacciano alla ribalta soprattutto nelle zone a più alta densità industriale. Ma non esclusivamente in quelle: nel 1984, ad esempio, la strage di Bhopal si verificò in un’area interna dell’India certamente non industrializzata, dove però esisteva uno stabilimento della Union Carbide India Limited, fondata dalla Union Carbide Corporation USA. A partire dal 1980 vi entrò in funzione la produzione di  isocianato di metile (MIC), un intermedio nella produzione dell’insetticida carbaryl, commercializzato come Sevin. L’impianto di  Bhopal era l’unico a produrlo fuori dagli Stati Uniti d’America.

Mappa dell’India con Bhopal evidenziata

Lo scarso successo del Sevin in India portò l’azienda a decidere la chiusura dello stabilimento nell’estate del 1983, ma, in attesa del trasferimento degli impianti, circa 63 tonnellate di isocianato di metile rimasero stoccate in 3 serbatoi sotterranei di acciaio e cemento, che dovevano rimanere pressurizzati e mantenuti raffreddati a 4° C, per evitare l’ebollizione del gas, che a pressione atmosferica si verifica a 38°C !

La manutenzione cessò progressivamente, nell’ottobre del 1984 venne anche spenta la fiamma pilota dello stabilimento, che bruciava eventuali gas in fuga, e la fabbrica venne definitivamente chiusa.

La sera del 2 dicembre di quell’anno, per una serie di coincidenze disgraziate e di colpevole superficialità e  trascuratezza, si verificò la tragedia: una cisterna si ruppe, il gas uscì in una gran nuvola densa dall’intenso odore di cavolo cotto e si stratificò nella parte bassa della città, verso le bidonville dei quartieri poveri che si trovavano nella cosiddetta “spianata nera”, intossicando migliaia di abitanti. Morirono di edema polmonare e complicanze respiratorie  15.000 persone, forse più.

Ma al di fuori degli episodi acuti, conseguenti a guasti, incidenti, errori umani, tutta la nostra storia degli ultimi decenni è costellata di segnalazioni di danni alla salute correlati all’industria chimica. Qui in Veneto, in particolare, stiamo vivendo l’ormai cronicizzato allarme PFAS: una ricerca effettuata nel 2013 dal Consiglio Nazionale delle Ricerche aveva  dimostrato la presenza di PFAS  in acque sotterranee, acque superficiali e anche in campioni di acque per uso umano nelle province di Padova e Vicenza.

PFAS è un acronimo inglese di PerFluorinated Alkylated Substances, ovvero sostanze che contengono carbonio fluorurato.

Queste sostanze perfluoroalchiliche vengono utilizzate per rendere resistenti ai grassi e all’acqua tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti … entrano anche nella produzione di pellicole fotografiche, schiume antincendio, detergenti per la casa, vernici, cera per pavimenti e detersivi, tessuti tecnici come il GORE-TEX® e lo Scotchgard™… ma il loro utilizzo più noto è probabilmente il rivestimento antiaderente delle pentole da cucina (Teflon®) .

E anche qui, nulla di nuovo, è già una vecchia storia!

Il politetrafluoroetilene (PTFE) venne sintetizzato nel 1938. La Kinetic Chemicals lo brevettò nel 1941, mentre il nome commerciale “Teflon” venne registrato nel 1945.

Teflon è un marchio DuPont. La DuPont fu fondata da Éleuthère Irénée du Pont de Nemours, un chimico francese allievo di Lavoisier, che emigrò negli Stati Uniti d’America e impiantò nel Delaware una prima fabbrica di polvere da sparo, la Du Pont de Nemours Company, nel 1802.  Erano i tempi della guerra d’indipendenza e poi della guerra civile americana, il momento ideale per fare affari in quel settore. E poi l’abile imprenditore diversificò la propria produzione nel settore chimico, e successivamente anche nell’automobile.

Éleuthère Irénée du Pont de Nemours, (Parigi 1771 – Filadelfia 1834)

Il PTFE appartiene alla classe dei perfluorocarburi (PFC) e deriva dalla polimerizzazione del monomero tetrafluoroetilene CF2 =CF2 .

E’ un materiale cristallino, incombustibile, inattaccabile dai comuni solventi,  liscio al tatto e con ottime qualità meccaniche, resistente a temperature fino ai 260 °C,  usato quindi nell’industria per ricoprire superfici sottoposte ad alte temperature, garantendo antiaderenza e inerzia chimica.

Le nostre amate padelle da cucina definite “antiaderenti”, sono appunto  tali perché ricoperte all’interno di uno strato di Teflon.

Il Teflon si decompone a temperature dai  350°C in su, liberando gas fluorurati tossici, e nell’uso corrente non presenta alcun rischio di tossicità finché permane a temperature inferiori ai 200 °C. Le precauzioni vanno osservate durante le operazioni di lavorazione e stampaggio. Ma per quanto riguarda le pentole in cucina, teniamo presente che il Teflon inizia a deteriorarsi quando si arriva ai 260°C. Le temperature ideali di frittura sono variabili, di solito si va tra i 160° e i 180° C, ma non è raro che, almeno con certi cibi, si arrivi ai 200 – 230 ° C. E’ importante quindi usare per le fritture oli che hanno un elevato punto di fumo (cioè la massima temperatura che può raggiungere un olio prima di iniziare a bruciare e decomporsi), come l’olio di semi di arachidi, e – se li trovate – l’olio di avocado raffinato e l’olio di cartamo raffinato, o anche, se vi piace, il burro chiarificato. Attenzione che le padelle lasciate a scaldare vuote possono raggiungere la temperatura a rischio.

E comunque, al di là del rischio da padelle antiaderenti arrostite, il Teflon è tristemente passato alla storia proprio perché la sua casa-madre, la DuPont, sversò per anni – praticamente per tutta la seconda metà del secolo scorso – gli scarichi della sua lavorazione nei fiumi vicini alla sede di produzione in West Virginia, inquinando tutta l’area. Prima iniziarono a morire gli animali, soprattutto i bovini che si nutrivano dell’erba “concimata” con sostanze chimiche PFAS e bevevano quell’acqua contaminata, e poi si ammalarono gli umani, e molti ne morirono. Ne seguirono denunce e processi per cause di indennizzo, con battaglie legali esasperate, campagne di stampa e film… ma al di là della sua spettacolarizzazione, il danno è stato reale.  I PFAS sono sostanze biopersistenti e bioaccumulabili, la produzione di polimeri perfluorurati avviene in tutto il mondo, l’esposizione a questa classe di sostanze chimiche è un fenomeno globale.

LE MATERIE PLASTICHE IN DERMATOLOGIA

E la nostra pelle come reagisce a questo assalto delle materie plastiche? L’impatto – abbiamo visto – perdura ormai da decenni, sempre più esasperato e massivo, tanto che  ha portato alla presenza di alcuni polimeri anche nel sangue umano. Naturalmente il nostro organo di rivestimento ha sempre manifestato una serie di reazioni irritative, allergiche, allergo-tossiche a svariati composti, alcuni dei quali subito individuati e catalogati, altri più subdoli e causa di sintomatologie ritardate, apparentemente meno correlabili: il tutto principalmente  nell’ambito lavorativo. Abbiamo visto per decenni susseguirsi ad ondate le segnalazioni e la casistica di dermatiti professionali, ricordo ad esempio episodi di orticarie da contatto con resine epossidiche in alcuni cantieri navali, con esplosioni sintomatiche così rapide e diffuse da presentarsi addirittura come sospette forme infettive.

Raccogliendo le osservazioni, studiando i casi e proponendoli all’attenzione, si sono realizzati aggiustamenti e modifiche  per bonificare e migliorare molti cicli produttivi, applicando   quanto più possibile le protezioni individuali e le lavorazioni a ciclo chiuso.

Sono stati allestiti interi cataloghi e manuali di raccolta dati, così da rendere accessibili non solo gli elenchi delle sostanze ma anche le situazioni in cui sono presenti e le dinamiche lavorative che possono provocare danno alla salute.

In particolare, per quanto riguarda soprattutto i polimeri, è importante sottolineare che i composti che arrivano all’utenza finale sono in genere stabili, quella che va presa in considerazione è la eventuale reattività della unità base, il monomero:  il rischio si manifesta dunque durante la lavorazione e preparazione, e vi sono esposti gli addetti ai lavori ma  anche l’intero ambiente  in caso di smaltimento scorie senza le dovute precauzioni, come abbiamo visto.

Un classico esempio di questa attività lesiva è quello del CLORURO DI VINILE MONOMERO o CVM (nome IUPAC: cloroetene)

Anche qui, se controlliamo la sua storia, lo troviamo già nell’ottocento. La sua sintesi diventa industriale ai primi del novecento con metodi che resteranno validi fino agli anni quaranta, per poi semplificarsi ulteriormente grazie alla combinazione di due elementi costitutivi della chimica di base, l’etilene e il cloro.

Prima della scoperta dei suoi effetti tossici veniva utilizzato in molte applicazioni di uso corrente, ad esempio è stato un propellente consentito nelle bombolette spray fino al 1974;  inoltre, veniva usato anche in medicina per indurre anestesia. Infatti, il cloruro di vinile deprime il sistema nervoso centrale e l’inalazione dei suoi vapori produce sintomi analoghi a quelli dell’intossicazione da alcol: mal di testa, perdita di coordinazione dei movimenti, disturbi della percezione visiva ed uditiva.

L’osservazione dei lavoratori esposti a basse concentrazioni continuate (esposizione cronica) permise di cogliere una sintomatologia definita come malattia da cloruro di vinile, dovuta alla formazione di proteine immunogeniche per l’interazione dei metaboliti del cloruro di vinile con le proteine plasmatiche. Le manifestazioni dell’intossicazione cronica sono quindi dovute al passaggio in circolo di immunocomplessi, con sindromi vasculitiche sistemiche gravi e crisi angiospastiche (fenomeno di Raynaud). Oltre a un intuibile corredo di sintomi legati allo stato tossico, in alcuni casi sono state rilevate lesioni cutanee simili alla sclerodermia, con riscontro radiologico di acro-osteolisi delle falangi distali, delle ossa del piede e della rotula. Questo tipo di patologia è stato poi studiato a posteriori, e si è visto che si è trattato di una malattia professionale che colpiva esclusivamente gli addetti alla pulizia manuale dei recipienti utilizzati per la polimerizzazione (i reattori) del cloruro di vinile: le prime osservazioni nel 1963, in Belgio, in uno stabilimento della Solvay, e poi in altri paesi del mondo. In tutto, poco più di un centinaio di casi. Le osservazioni si sono esaurite con il finire degli anni ’70, la malattia stessa è praticamente scomparsa, via via che veniva abbandonata la pulizia manuale dei reattori, e si assumevano le dovute precauzioni per limitare l’esposizione degli operai.

Il cloruro di vinile è inoltre un cancerogeno riconosciuto, responsabile in particolare di certe forme di cancro del fegato, come il carcinoma epatocellulare e l’angiosarcoma epatico.

In Italia, nel Polo Chimico di Porto Marghera la Montedison produceva enormi quantitativi di CVM e PVC: nell’ottobre 1996 il Procuratore della Repubblica di Venezia, Felice Casson, chiese il rinvio a giudizio dei dirigenti della Montedison, con l’accusa di aver sottovalutato gli effetti tossici del CVM nonostante questi fossero già noti all’azienda almeno fin dal 1972. Il processo si concluse con una sentenza di assoluzione.

Nel dicembre 2004 l’esito del processo d’appello modificò la sentenza, riconoscendo colpevoli di omicidio colposo molti degli imputati: ma non ne seguirono condanne, per avvenuta prescrizione.

L’ uso principale del CVM è la produzione del suo polimero, il policloruro di vinile o polivinilcloruro o PVC, materiale utilizzato per realizzare una grande varietà di prodotti plastici per edilizia, idraulica, arredamenti, rivestimenti per auto, imballaggi e cartotecnica: le carte di credito sono in PVC, e tutti conosciamo i dischi in vinile.

E’ un materiale  stabile e sicuro a temperatura ambiente. Diventa estremamente pericoloso se bruciato, o scaldato a elevate temperature, perché può liberare acido cloridrico, mentre non degrada depolimerizzando a formare cloruro di vinile monomero, e questa è sicuramente una nota rassicurante.

In altri casi, per qualche sostanza c’è però il dubbio che il monomero potrebbe svincolarsi dalla sua catena di montaggio anche durante l’uso del prodotto finito, e tornare al suo stato primigenio. Questo è un particolare da tenere ben presente, ad esempio, quando alcuni composti si usano per protesi o impianti: siamo sempre sicuri che le condizioni dinamiche di un corpo vivente (attriti, movimenti, microtraumatismi, variazioni di temperatura, contatti con fluidi…) non abbiano alcun influsso sulla stabilità e inerzia del materiale? Attenzione e prudenza si impongono, meglio non esporsi a rischio ed evitare innesti e impianti, compresi  quelli a fini estetici, se non si sono già constatate, con osservazioni prolungate nel tempo, tutte le dinamiche possibili.

E comunque, in generale, riprendendo il tema proprio da quanto abbiamo visto all’inizio del discorso, sarebbe veramente opportuno mantenere le distanze, con le materie plastiche.

Certamente utili e insostituibili, non sono più eliminabili dalla nostra realtà, ma si devono trovare equilibrio e misura sia nelle abitudini quotidiane che nelle realtà lavorative, dove in effetti la normativa di tutela è già ampia e dettagliata: basta applicarla!  Mai più malattie professionali come quella da CVM, e tanto meno tragedie da rotture di impianti come a Bhopal.

Rimane sempre purtroppo quel margine di imprevisto che può repentinamente concretizzarsi in un infortunio, evenienza non rara anche nel settore dell’industria chimica (ricordiamo che, per definizione, l’infortunio è un “evento che si verifica in occasione e per causa di lavoro, provocato da azione lesiva violenta e limitata nel tempo”; la malattia professionale è un “evento che si verifica in occasione e per causa di lavoro, provocato da azione lesiva ripetuta e prolungata nel tempo”).

A questo proposito mi è rimasto impresso nella memoria, fra tanti casi, l’infortunio sul lavoro di E.U. Henry, un nordafricano di 27 anni che lavorava come operaio nell’industria plastica, addetto alla produzione di resine poliuretaniche.

Nel settembre 2008 aveva riportato ustioni da plastica fusa: per rottura di un tubo, il getto di poliuretano termoplastico (punto di rammollimento del prodotto a temperatura superiore ai 120°C) gli era schizzato a pressione sul palmo della mano sinistra. Considerando la dinamica dell’incidente, tutto sommato era anche andata bene, la lesione era molto limitata.  Dopo due mesi, però, non era guarita. La mano si presentava edematosa e rigida, con la cicatrice sulla superficie palmare a rilievi irregolari, lobulati, duri e dolenti alla palpazione

Il paziente veniva quindi sottoposto a toilette chirurgica della ferita… e dal fondo emergevano e venivano asportate una serie di masserelle solide e leggere, dall’aspetto resinoso, traslucido: la maggiore di circa 6 cm x 4, a forma irregolare, arborescente;   altri tre frammenti più piccoli, variamente cilindro-conici, di 1 – 2 cm.

Un paio di mesi dopo, nel gennaio 2009, ulteriore intervento, e questa volta con accesso dalla superficie dorsale della mano

Nel maggio 2009 il paziente veniva infine inviato a un Centro di Chirurgia della mano, per ulteriori accertamenti e interventi.

L’infortunio si concludeva ufficialmente nel novembre 2009, quindi dopo 14 mesi di inabilità temporanea al lavoro, con un riconoscimento di postumi di invalidità del 6%.

Lo stampaggio delle materie plastiche avviene per compressione dentro uno stampo riscaldato; o per iniezione, tramite riscaldamento e fusione del materiale che vien fatto fluire dentro uno stampo dove, raffreddandosi, ne prende la forma

Il nostro Henry aveva dunque proceduto, senza saperlo e sicuramento senza volerlo, alla metodica di stampaggio delle materie plastiche per iniezione:

percorso lungo e doloroso liberarsi poi da quegli innesti, gliene restava una brutta cicatrice e qualche residuo di imperfezione funzionale. E, riposti con cura in un sacchettino, come un ex voto per lo scampato pericolo, quei frammenti di resine poliuretaniche che per un po’ avevano fatto parte di lui, entrati a forza nella struttura della sua mano a ricalcarne lo stampo fra ossa, tendini, muscoli, vasi e nervi.

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ALLERGIE AL LATICE DI GOMMA

Con il termine làtice si indica il caucciù, o gomma naturale.

Sostanza molto nota, utilissima per le sue svariate applicazioni sia nel vivere quotidiano, sia nei programmi industriali su più vasta scala, la gomma naturale è presente in area occidentale ormai da circa tre secoli, ma, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, ha dimostrato una imprevista, progressiva e decisa aggressività nei confronti della nostra salute: ha iniziato infatti a comportarsi da allergene molto attivo, capace – a differenza della maggior parte degli altri allergeni, che entrano in contatto con l’organismo per una sola via – di penetrare sia per contatto cutaneo e mucoso, che per inalazione. E anche per ingestione: sono stati infatti segnalati casi di gravi reazioni anafilattiche in soggetti che avevano consumato cibo precedentemente manipolato e servito da personale, che, nel rispetto di norme igieniche peraltro raccomandate e apprezzabili, calzava guanti di latice. Si trattava certamente di casi particolari, nel senso che le persone colpite avevano già dei precedenti di iperreattività, ma era comunque un segnale di allarme.

Si deve quindi parlare non solo di dermatiti, ma di malattie in senso lato, da sensibilizzazione al latice. Inoltre, si tratta spesso di malattie professionali, ossia di patologie correlate ad una esposizione lavorativa

(Ricordiamo che, per definizione, la malattia professionale è provocata da sostanze, naturali o di sintesi, presenti nel posto di lavoro, che agiscono nel tempo;

I ‘infortunio è una lesione da causa violenta, acuta, in occasione di lavoro).

Intanto chiariamo subito che è corretta proprio la grafia con una sola “t”, perché la parola deriva dal latino “Latex -laticis”  (linfa, liquido che sgorga) anche se ormai è sempre più diffusa la forma “lattice”, per assonanza con “latte”

E in effetti, persino per noi veneti, notoriamente inclini a ignorare le doppie anche quando sarebbero obbligatorie, riesce difficile la pronuncia dolce di latice. Più coerenti in questo caso gli Autori anglosassoni, che usano comunemente il termine Latex.

Si tratta dunque di un succo che sgorga dai canati laticiferi di molte piante, particolarmente Composite ed Euforbiacee, chiaro, simile al latte, o colorato in giallo o rosso: bianchi sono il latice del fico, della lattuga, del papavero; giallo aranciato quello della celidonia.

Per azione di varie sostanze aggiunte, o del calore, il latice tende a coagulare, Iasciando separare la fase dispersa.

Il suo ruolo fisiologico per la pianta non è ancora del tutto chiarito; si tratta di una sostanza la cui biosintesi rappresenta un risultato terminale, nel senso che si accumula, ma non è riutilizzata dalla pianta stessa. Semplicemente un prodotto di escrezione, quindi? comunque, la ferita della corteccia determina un aumento di produzione di speciali cellule, con liberazione di proteine che hanno funzione di difesa contro funghi e batteri (attività lisozimica),

La sua composizione è estremamente complessa, variabile da specie a specie, e anche da pianta a pianta della stessa specie, a seconda delle singole condizioni; mediamente, è costituita per oltre il 50% di acqua, nella quale sono disciolte, o sospese, sostanze diverse: grassi, cere, resine, steroli, proteine, enzimi; sono inoltre frequenti gli alcaloidi che possono fargli assumere le proprietà di una droga (si pensi a quello del papavero da oppio).

Ma il più importante e caratteristico contenuto di alcuni latici  è costituito da idrocarburi, in particolare da quei polimeri isoprenici che Ii rendono appunto latici caucciferi, estraibili dai cosiddetti “alberi della gomma”, e che, come abbiamo visto, sono causa di possibili reazioni allergiche.

ALBERI DELLA GOMMA

Hevèa (da una voce indigena dell’Ecuador) è un genere di piante delle Euforbiacee, con 24 specie tropicali dell’America del Sud. Si tratta di grandi alberi, tra i quali I’Hevea brasiliensis è la specie di maggior importanza a livello di mercato mondiale: dalle incisioni sulla sua corteccia si raccoglie il latice per la produzione di gomma naturale della miglior qualità; i semi della stessa pianta forniscono oli per saponi e vernici.

Hevea brasiliensis

In realtà, le piante che producono gomma naturale sono oltre 300, ma solo alcune varietà sono realmente produttive, da un punto di vista economico. Si possono segnalare, oltre alle Euforbiacee, come appunto l’ Hevea brasiliensis del Parà, le Moracee, cui appartiene la Castilla elastica o albero della gomma di Panama o Mastate Blanco

Castilla elastica  – Moracea – (Mexican Rubber tree)

e inoltre le Composite, con il Parthenium argentato o guayule, arbusto del Messico, il cui latice è contenuto non nei tubi laticiferi, ma nelle cellule, e che dà una gomma non allergizzante, ma con molte resine e impurezze.

Il primo contatto occidentale con la gomma iniziò da Cristoforo Colombo, che aveva notato come gli abitanti delle terre appena scoperte usassero dei recipienti “impermeabilizzati” e giocassero con degli strani “globi” rotolanti e rimbalzanti. Nel 1493 egli e i suoi marinai portarono in Europa qualche esempio di quegli oggetti in gomma: è probabile che derivassero proprio dalla Castilla Elastica, ma nel clima del Vecchio Mondo i manufatti deperirono ben presto, non sopportandone le escursioni termiche, resi fragili e secchi dal freddo.

Altri successivi esploratori riportarono notizie di materiali di quel tipo, usati dagli indigeni del Centro e Sud America, ma la loro origine rimase per secoli sconosciuta. Il primo diario di viaggio in cui si riferisce che i nativi ricavavano quelle sostanze da alberi delle loro foreste risale al 1615, ma dovette passare oltre un secolo di altre vaghe o fantasiose segnalazioni, per arrivare alla prima, documentata relazione scientifica: che pervenne dall’astronomo Charles-Marie de la Condamine, il quale aveva avuto modo di osservare come le tele poste a protezione dei suoi cannocchiali diventassero impermeabili, e quindi molto più resistenti e funzionali, se spalmate con quella sostanza che i “seringueros” facevano colare dalle incisioni praticate sulla corteccia del tronco di uno dei più begli alberi della foresta amazzonica.

Charles-Marie de La Condamine (Parigi, 1701-1774) era stato incaricato, dall’Accademia francese delle scienze, nel 1735, di effettuare una spedizione nel territorio che attualmente si chiama Ecuador, per misurare la lunghezza di un meridiano in prossimità dell’Equatore. La spedizione si protrasse per otto anni, e poi La Condamine prolungò ulteriormente il suo viaggio, partendo da Quito e scendendo il Rio delle Amazzoni, e compiendo così la prima vera esplorazione dell’Amazzonia. E proprio da quel viaggio portò in patria, nel 1744, le prime descrizioni e i primi esempi di caucciù, chinino e curaro, elementi che aveva scoperto e conosciuto con la frequentazione degli Indios.

Grazie a lui, quindi, pervennero all’Accademia delle Scienze di Francia anche alcuni campioni di gomma, con la descrizione di come questo materiale fosse ottenuto dal liquido, bianco come latte, ricavato da una pianta detta Hevea. I nativi chiamavano questo prodotto cahuchu(c), da cui iI francese caoutchouc.

La prima applicazione pratica a carattere industriale risale al 1770, quando Joseph Priestley (lo scopritore dell’Ossigeno) iniziò la produzione di un piccolo, innocente e utilissimo oggetto: la gomma da cancellare. Egli aveva infatti notato che la gomma, sfregata sulla carta, ne cancellava i segni di matita. E di qui il nome inglese del nuovo materiale, rubber, dal verbo to rub = sfregare.

Qualche anno dopo si osservò che la gomma risultava impermeabile ai gas e che era solubile in trementina: e così, nel 1783, applicando tale soluzione a dei teli e aspettando l’evaporazione del solvente, si ottennero i primi tessuti rivestiti da una sottile pellicola di gomma, e i fratelli Montgolfier – ma non solo loro – seppero ben presto come usarli.

Naturalmente, gli accorgimenti e le modifiche per migliorare e ampliare la produzione della gomma si susseguirono poi numerosi: da ricordare quel procedimento particolare che consiste nella vulcanizzazione, ideata nel 1839 da Charles Goodyear, che ottenne una importante modificazione della gomma mescolandola allo zolfo e riscaldando sopra il punto di fusione di quest’ultimo. Il suo socio Hancock coniò il termine di vulcanizzazione in onore di Vulcano, dio del fuoco, e mise a punto il processo di produzione mescolando gomma e zolfo in autoclave a 150°C

Successivamente, si ottenne anche la vulcanizzazione a freddo. Nella gomma vulcanizzata la struttura è reticolata; aumentando la percentuale dello zolfo oltre il consueto 1 – 3 %, si ottengono prodotti duri, rigidi, come l’ebanite.

Quindi, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del Novecento, la richiesta di gomma stava crescendo in misura esponenziale. Iniziava nel mondo anche l’era dell’automobile, e se le prime vetture avevano ancora ruote di legno come le carrozze, i fratelli Michelin avevano però dimostrato, gareggiando nella corsa Parigi-Bordeaux-Parigi nel 1895 con una Panhard dotata di “pneumatici”, che quei nuovi tubi di gomma, fino ad allora usati solo per le biciclette, potevano non solo sopportare il peso di un autoveicolo ma anche migliorarne le prestazioni.

L’Amazzonia deteneva il monopolio naturale della gomma grezza vegetale, richiesta da ogni parte del mondo. Milioni di alberi produttivi, sparsi su oltre tre milioni quadrati di foresta vergine, rappresentavano una risorsa che sembrava senza fine, e la gomma naturale, inizialmente “da selva” e poi da piantagioni, aveva costituito un’importante fonte di ricchezza per il Brasile: dalla seconda metà dell’Ottocento i signori della gomma, a Manaus e dintorni, acquistarono potere economico maggiore dei famosi baroni del caffè.

Naturalmente, secondo una prassi che contraddistingue da sempre i comportamenti umani, i “conquistadores” avevano sottoposto i nativi a uno sfruttamento spietato e intensivo, costringendoli a lavorare in condizioni estreme, a turni serrati che iniziavano prima dell’alba, per concludersi in mattinata (il latice va raccolto prima della grande calura, altrimenti coagula, e si secca) e in egual modo sfruttando le piante senza criterio. Ben presto, la materia prima esportata dal Brasile non sarebbe stata più in grado di soddisfare le richieste del mercato…

Intanto, i Britannici stavano organizzando nuove coltivazioni per le loro colonie tropicali. Dalle Ande erano riusciti a trasferire in India l’albero dalla cui corteccia si ricava il chinino, la procedura aveva avuto successo, e cercavano di realizzare qualcosa di analogo con l’albero della gomma. Erano stati compiuti diversi tentativi per procurarsi il seme dell’Hevea dal Brasile, e se ne interessavano in particolare gli esperti del Giardino Botanico Reale di Kew (Londra), ma il seme dell’Hevea, così ricco di zuccheri, andava subito in fermentazione al caldo dei tropici, non superava il viaggio, moriva. Doveva verificarsi una serie di circostanze favorevoli perché il trasporto riuscisse, il che avvenne nel 1876, quando una nave inglese risalì il Rio delle Amazzoni per consegnare un carico, e alla ripartenza accettò di trasportare dei cesti di vimini con 70.000 semi di Hevea, preparati e spediti dall’inglese Henry Wickam: era la stagione giusta, i semi stavano proprio allora incominciando a maturare, e la nave partì da Santarem (situata alla confluenza del fiume Tapajós con il Rio delle Amazzoni, a metà strada tra le due principali città della regione amazzonica, Manaus e Belém)  per arrivare dopo 400 miglia alla dogana di Belém, alla foce del fiume, e i doganieri furono provvidenzialmente molto rapidi nel far passare quella nave che conteneva “campioni botanici da fornire al Giardino Botanico Reale di Kew di Sua  Maestà Britannica”.

Rio Amazonas,  6 992 km ( oltre 10 volte il nostro Po), si contende con il Nilo il primato di fiume più lungo del mondo; nasce in Perù, attraversa Colombia e Brasile pr sfociare nell’Atlantico con un delta di circa 200 Km
Ha 10.000 affluenti ed è così largo che da Manaus alla foce è rimasto senza ponti fino al 2010, anno di inaugurazione del Ponte Rio Negro o Ponte Manaus Iranduba: alto 150 metri e lungo 3.500, il ponte sorge alla confluenza del Rio Negro con il Rio delle Amazzoni, a metà strada tra le due principali città della regione amazzonica, Manaus e Belém

Gli eventi si concatenarono tutti senza intoppi, dunque: ma soprattutto, si trattava di una nave a vapore, non a vela come nelle precedenti spedizioni, e quei pochi giorni di viaggio risparmiati fecero la differenza. Molti dei 70.000 semi morirono, ma una quota di circa il 4% germinò e produsse nuove pianticelle nelle serre di Kew. I giovani alberi vennero poi spediti a Ceylon (e alcuni esemplari vivono ancora oggi in quei giardini), e poi di lì a Singapore e in altre zone tropicali dell’Impero alla ricerca dei terreni e dei climi adatti in cui poter essere trapiantati, per dare origine a vere e proprie piantagioni di alberi della gomma. Gli Inglesi fecero disboscare ampie zone di foreste e coltivarono l’Hevea in Malesia e nell’isola di Ceylon. Successivamente gli olandesi la diffusero nell’Indonesia, i Francesi nell’Indocina e gli Spagnoli nelle Filippine.

Le nazioni come la Germania che non disponevano di colonie nell’opportuna area climatica si trovarono tagliate fuori da tali risorse, e non è quindi un caso che proprio da loro siano stati compiuti e realizzati i maggiori sforzi per l’ottenimento di una gomma sintetica.

LA GOMMA SINTETICA

Chimicamente, la gomma naturale è costituita da un polimero dell’ISOPRENE, idrocarburo alifatico del gruppo delle diolefine CH2=C(CH3)CH=CH2, noto anche come METILBUTADIENE, polimerizzato nella forma cis- (nella guttaperca polimerizza in forma trans-).

Nel 1909, iniziò in Germania, se pure con qualche difficoltà, la produzione della gomma sintetica; i procedimenti attuali permettono di ottenere, per polimerizzazione dell’Isoprene, un POLISOPRENE – 1,4-cis stereo regolare, che costituisce un elastomero dal comportamento e dalle caratteristiche del tutto simili a quelli della gomma naturale.

La combinazione di varie mescole di gomma, sia naturale che sintetica, ha permesso negli anni di ottenere materiali sempre più resistenti agli agenti atmosferici e alle alte temperature. Con l’invenzione del battistrada e la massiva produzione di pneumatici, la produzione di gomma si è legata sempre più all’industria automobilistica, e successivamente a quella aerospaziale; ma per quanto siano perfezionate le gomme sintetiche, si è visto che l’elasticità e l’aderenza della gomma naturale sono ineguagliabili, e la rendono unica e insostituibile soprattutto per gli pneumatici degli aeroplani, programmati per resistere alle formidabili forze di attrito in fase di atterraggio.

È stato calcolato che l’industria degli pneumatici assorba oltre il 70 per cento di tutta la produzione mondiale di gomma naturale.

LE PATOLOGIE DA SENSIBILIZZAZIONE AL LATICE

Ma perché, da poco più di quarant’anni, il LATICE NATURALE è diventato un allergene tanto importante?

Era già nota l’evenienza di allergie alla gomma, con dermatiti da contatto, per sensibilizzazione ai suoi componenti, presenti nei

Vulcanizzanti              perossido di benzoile

Acceleranti                    carbammati, tiurami, guanidine, urea, naftilamina, mercaptani

Antiossidanti                 derivati della parafenilendiamina, fenoli

ma quella più recente patologia che esprimeva una sensibilizzazione IgE-mediata con manifestazioni spesso a carico di più organi, e così progressivamente in crescita da costituire una emergenza sanitaria, aveva esordito sulla scena mondiale con il sapore di una imprevista e sgradita novità.

Veramente, già nel 1927, in due pubblicazioni tedesche, c’era stata la prima segnalazione ufficiale di tale evenienza, ma è nel 1979 che, sul British Journal of Dermatology, il Nutter pubblica il suo lavoro su un caso di orticaria da contatto con guanti di gomma, in una casalinga: egli dimostra che la paziente presenta prick-test positivi non solo al latice naturale, ma anche ad un estratto di foglie dell’albero della gomma! l’intuizione è stata collegare le manifestazioni cutanee al contatto con il manufatto finito (guanti in latice)  e verificare che l’allergia è proprio correlata alla sua sostanza madre, alle sue origini. Ed è una sostanza naturale, vegetale.

In quell’ultimo ventennio del secolo scorso, più fattori hanno contribuito all’insorgere e al diffondersi della nuova allergia:

si stava allora manifestando una allarmante patologia virale altamente contagiosa (corsi e ricorsi della storia!): causata dal virus HIV (Human Immunodeficiency Virus), poteva determinare una sindrome mortale, da immunodeficienza acquisita, l’AIDS.  La conoscenza delle modalità di contagio attraverso il sangue infetto fece adottare più severe normative per la sicurezza in ambito sanitario, con aumento esponenziale dell’uso dei guanti in latice; ma l’AIDS è una malattia sessualmente trasmessa, per cui si rafforzò anche la raccomandazione dell’uso dei preservativi;  

Il mercato si adattò prontamente alla maggior richiesta del materiale, promuovendone l’incremento della produzione mondiale, cui conseguirono

  • sfruttamento intensivo di coltivazioni forzate, con metodiche affrettate
  • accorciamento dei tempi di stoccaggio nei depositi e nei trasporti, e quindi con immissione in commercio di guanti a maggior contenuto allergenico

Un altro fattore allergenico fu anche la

modificazione della polvere lubrificante dei guanti, dal talco minerale all’amido di mais.

A partire dagli anni ’80, in concomitanza con l’aumento di consumo dei guanti in latice in ambito sanitario, il talco minerale che costituiva la polvere lubrificante venne sostituito con l’amido di mais, per evitare il rischio di granulomi, osservati in qualche ferita chirurgica.

Ma il talco, a fronte del rischio granulomi, presenta il vantaggio di legare in modo irreversibile le proteine allergeniche del latice, diventando un antigene corpuscolato, come gli antigeni capsulari di certi batteri.

Inoltre, è più pesante e meno inalabile rispetto all’amido di mais, tende a cadere.

Per contro, I’amido di mais, di per sé assolutamente innocuo, si carica delle proteine allergeniche del latice, e ne rilascia una gran parte quando giunge in un mezzo acquoso come la pelle umida e le mucose: diventa quindi veicolo di allergeni solubili, comportandosi come i granuli pollinici e le particelle allergeniche degli acari, generando una risposta immunologica con induzione di anticorpi IgE.

Gruppi a rischio:

  • Atopici
  • Lavoratori in ambito sanitario
  • Bambini plurioperati

Dalla lunga storia della gomma, abbiamo già visto come molti oggetti di uso comune contengano latice e come l’umanità ne venga a contatto da secoli, ma senza conseguenze per Ia maggior parte delle persone.

L’allergia al latice colpisce dall’1 al 2% della popolazione generale, e tutte le osservazioni hanno dimostrato che la sensibilizzazione al latice è più probabile negli operatori sanitari, a causa ovviamente dell’esposizione a un contatto prolungato e frequente,

(prevalenza in operatori sanitari europei 3 -11% che può aumentare al 7 – l5% in personale di chirurgia: questi erano i dati che avevo trovato nel 1994)

Una recente pubblicazione (luglio 2021) di A.S. Parisi e coll., dell’Ospedale Italiano di Buenos Aires ” Aggiornamento sull’allergia al lattice: nuovi approfondimenti su un vecchio problema”, riporta una più larga gamma di prevalenza, indicando una sensibilizzazione al latice, nella popolazione generale, compresa tra ≤ 1% fino ad un massimo del 7,6%; e, nei vari gruppi esposti professionalmente, una prevalenza tra il 25 e il 50% nel personale sanitario (medico e  infermieristico), in particolare dell’area chirurgica

Studi epidemiologici hanno dimostrato ormai da circa trent’anni che una popolazione specifica di pazienti come quelli con spina bifida è a maggior rischio di sviluppare un’allergia al latice, con una prevalenza di ipersensibilità compresa tra il 20% e il 65%. L’ipersensibilità è probabilmente correlata, in questi pazienti, alla ripetuta esposizione al latice durante i numerosi interventi chirurgici e procedure correttive cui vengono sottoposti fin da bambini.

Anche i pazienti con cateterizzazione ripetuta a causa di anomalie urologiche sono a maggior rischio.

FRAZIONI ALLERGENICHE  DEL LATICE

Come per tutti gli allergeni naturali, ci si trova a considerare una struttura complessa. Il primo ad essere identificato è stato il c.d. Allergene Maggiore, proteina di 58 kD, formato da una sequela di aminoacidi che costituiscono il REF (Rubber Elongation Factor, Fattore di allungamento della gomma) presente già nell’albero della gomma e quindi nel latice che, per incisione, ne sgorga.

Sono state poi identificate, negli anni,  molte altre frazioni, e ognuna di esse è indicata con

  • le prime tre lettere del genere (Hevea = Hev)
  • la prima lettera della specie (brasiliensis = b)
  • il numero arabo progressivo, secondo la cronologia della scoperta

quindi da Hev b 1 in  poi, e siamo arrivati attualmente a Hev b 15

SINTOMATOLOGIA

Il quadro clinico classico della allergia al latice, che si osserva più frequentemente, esordisce con una

orticaria da contatto: la persona che ha calzato guanti in latice avverte sensazione di prurito e bruciore alle mani, in particolare sulla superficie dorsale;

Eritema pomfoide

naturalmente i sintomi non si manifestano al primo incontro, c’è sempre un periodo iniziale di latenza, la memoria allergica deve depositarsi nel sistema per far scattare l’allarme; ma poi, una volta sensibilizzato, l’organismo protesta in tempi sempre più brevi, tanto che può diventare intollerabile il semplice ingresso in una stanza in cui c’è qualche manufatto in latice di gomma;

seguono in genere prurito palpebrale, lacrimazione, rinite e, nei casi più gravi, dei veri e propri attacchi d’asma.

La prevenzione è fondamentale per ottenere buoni risultati per i pazienti con allergia, evitare il contatto con la sostanza allergizzante sarebbe la norma più ovvia e sicura, ma abbiamo capito che in questo caso non è proprio facile:

poche altre materie prime sono infatti così presenti in tanti oggetti di uso comune, quanto la gomma naturale. Recentemente, la produzione mondiale è arrivata anche a 20 milioni di tonnellate all’anno, e la distribuzione capillare di questo materiale è tale da rendere praticamente impossibile non trovarsene a contatto. Basti pensare a pneumatici, suole di scarpe, cancelleria, elastici, guaine isolanti per i cavi, guarnizioni di motori e di elettrodomestici, palloni e palline da sport…

Fortunatamente, non tutti i prodotti in gomma sono egualmente allergizzanti, lo abbiamo già compreso nel viver quotidiano, e lo studio delle procedure di lavorazione e produzione ha confermato che conservano la carica di proteine allergeniche vive e attive quelli che vengono realizzati in processi con vulcanizzazione a basse temperature. E sono appunto gli oggetti facilmente riconoscibili di cui ci stiamo qui occupando, quindi guanti, preservativi, lacci emostatici, cateteri;  

Paperella Hevea, in puro latice naturale
palline koosh

ma aggiungiamo inoltre palloncini, adesivi, palline koosh e alcuni giocattoli, anche questi tutti particolarmente presenti in ambito sanitario: non rivestono infatti un ruolo tecnico, funzionale, ma entrano come componenti di festa e leggerezza nel mondo infantile e quindi di conforto nei reparti di pediatria.

I prodotti con  questo tipo di gomma rappresentano il 10 – 12 % della intera produzione. Gli altri sono vulcanizzati a caldo, a temperature molto elevate e per periodi prolungati, così che le proteine allergeniche vengono in gran parte denaturate e scisse in piccoli peptidi, provvidenzialmente incapaci di risvegliare la risposta anticorpale delle Immunoglobuline E.

Latex-Fruit syndrome

E’ emerso fin dai primi anni di studio e osservazioni che i soggetti con determinate allergie alimentari, in particolare quelli che reagiscono ai cibi derivati da piante e consumati freschi, sono a maggior rischio (fino al 40%) di reazioni al latice. La prima associazione osservata, nel 1991, fu la cross-reattività latice-banana, cui si aggiunse nel ’92 l’avocado, e successivamente Kiwi e castagna: la definizione Latex-Fruit Syndrome  (letteralmente sindrome latice-frutto) venne proposta nel 1994.  E’ interessante il rilievo che non sempre è facile determinare cosa nasce prima (o quanto meno i pazienti non sanno riferirlo) e che la reazione si può svolgere nei due sensi: gli allergici a certa frutta sono a maggior rischio di reazioni al latice/ gli allergici al latice possono acquisire una maggiore reattività a quei frutti.

Hev b 2, Hev b 6.02, Hev b 7, Hev b 8 sono gli allergeni identificati come responsabili di queste reazioni crociate, che spesso si manifestano anche con gravi fenomeni di anafilassi

DIAGNOSI

sempre fondamentale l’anamnesi, ricostruire la storia clinica dà il primo orientamento per l’interpretazione dei sintomi;

Le indagini diagnostiche sono quelle in uso per le patologie allergiche.

  • dai test epicutanei
  • alla ricerca delle IgE specifiche nel siero
  • ai test di provocazione (Challenge-Test): il più semplice e diretto consiste nell’uso del guanto, da 15 min. a due ore, e si osserva la reazione cutanea; con maggior prudenza, e solo in ambienti attrezzati, anche il test di provocazione bronchiale, con valutazione della funzione polmonare e dei sintomi bronchiali.

…e TERAPIA

Come già detto, la prima arma terapeutica sarebbe evitare l’esposizione all’allergene, ma non sempre questo è realizzabile

Si è naturalmente cercato, fin dall’emergere del problema, di ridurre comunque l’impatto con il latice naturale di gomma soprattutto negli ambienti di lavoro. L’adozione di guanti depolverati (abbiamo visto che le polveri in uso, di per sé non allergizzanti, costituiscono un potente mezzo di diffusione delle proteine allergogene) nelle sale operatorie e negli ambulatori ha portato a discreti risultati;

nelle attività di lavoro asciutto, e a minor rischio sul versante sicurezza anti-microbica e anti-virale, vengono proposti i guanti in vinile o in nitrile;

sono state allestiti, nei maggiori ospedali, percorsi diagnostici e sale operatorie prive di oggetti e strumenti in latice di gomma (latex-free), per non esporre a rischio i pazienti con sensibilizzazione già nota, ma può trattarsi solo di situazioni isolate, non proponibili a grandi numeri, per difficoltà tecniche e costi elevati.

I tradizionali protocolli terapeutici in uso per gli allergici, con farmaci-base come gli antistaminici e i cortisonici, sono spesso prescritti come sintomatici per dare almeno un transitorio sollievo ai pazienti; ma nel caso di accertata sensibilizzazione al latice va considerata la possibilità di episodi gravi fino allo shock anafilattico per eventuale esposizione ripetuta, e va quindi prescritto l’auto-iniettore di adrenalina, con relative istruzioni;

si è compiuto anche qualche studio sull’immunoterapia sottocutanea con estratti di latice, con risultati di un miglioramento dei sintomi, ma con una sequela di effetti collaterali, da  una reazione locale nella quasi totalità dei casi, a  reazioni sistemiche in oltre il 40% dei casi. Forse un po’ meglio tollerata l’ immunoterapia sub linguale, effettuata soprattutto  in gruppi di bambini: ma sono comunque esperienze molto limitate, anche per la difficoltà, in tutto il mondo, di procurarsi degli estratti commerciali standard e omologati, e le linee-guida ufficiali non la considerano una indicazione provata e accettata per l’allergia al lattice.

Farmaci biologici: come in molte altre forme di orticaria da contatto, è stato sperimentato il trattamento con l’anticorpo monoclonale anti-IgE omalizumab, che ha dimostrato un’attività antiallergica oculare e cutanea clinicamente significativa negli operatori sanitari con allergia professionale al lattice, ma sono necessari ulteriori studi per valutare il rapporto costo-beneficio di questo trattamento, quando l’esposizione sul posto di lavoro non può essere evitata.

Abbiamo dunque constatato che l’allergia al latice di gomma rimane un problema aperto, soprattutto nell’ambito dell’esposizione professionale, e di non facile soluzione anche se ormai ben noto: lo si affronta, lo si tiene sotto controllo, ma al momento non è certo possibile realizzare ambienti diffusamente e sicuramente latex-free.

La gomma rappresenta una risorsa economica per i Paesi fornitori, e il suo commercio influenza i mercati di tutto il mondo. Londra aveva assunto inizialmente funzioni di mercato internazionale, ridistribuendo almeno il 50% delle importazioni. Nelle attuali dinamiche commerciali che attanagliano ormai tutto il pianeta, il prezzo della gomma non è correlato ai costi di produzione, ma è stabilito dallo SHFE (Shanghai Futures Exchange), Ente fondato negli anni Novanta e gestito dalla China Securities Regulatory Commission, che si occupa di regolare il mercato azionario di metalli, carburante, gomma… È accaduto così che negli ultimi anni il prezzo della gomma per tonnellata si sia mantenuto su valori piuttosto bassi: per incrementare i profitti i coltivatori sono stati quindi indotti a sfruttare eccessivamente gli alberi, incidendo il tronco più a fondo e con maggiore frequenza, esponendoli così a un progressivo indebolimento e ad una maggiore vulnerabilità alle malattie

Il comitato che include i maggiori produttori mondiali di gomma, l’ International Tripartite Rubber Council (ITRC) aveva previsto, alla fine del 2019, che la produzione di gomma naturale  sarebbe  diminuita, nel 2020, del 7 per cento. Ma poi c’è stata la pandemia da Covid-19, e tutte le previsioni sono saltate.

Nel gran gioco delle parti, si assiste dunque al ripetersi di quell’andamento che caratterizza molti ruoli umani da sempre: qualcuno che dirige e programma, i gruppi intermedi che gestiscono, e alla base la gran massa di quelli che devono rendere e produrre, perché la goccia stillata da ciascuno possa confluire nel mare grande della ricchezza che poi si incanalerà per chiudere il cerchio e tornare al vertice della piramide.

E comunque, se veramente si arrivasse a una crisi di produzione della gomma (tralasciando il dettaglio che se i prodotti in gomma sparissero sarebbe la soluzione ideale per i nostri allergici al latice, ma abbiamo già capito che questo non accadrà …) una delle soluzioni più semplici e immediate potrebbe sembrare quella di piantare più alberi di Hevea o di Castilla, ma occorre considerare che devono passare almeno sei-sette anni prima che gli alberi siano pronti per la produzione di latice. E soprattutto, se si vuole allargare la visione e incominciare un po’ a rispettare l’andamento naturale della nostra bistrattata madre Terra, va considerato che, proprio come è stato fatto (e si continua a fare) con la palma da olio, sarebbe l’ennesima condanna per la biodiversità e comporterebbe in molti casi nuove deforestazioni.

Intanto però continuano da anni anche le ricerche di alternative alla gomma naturale da Hevea, e una delle piante oggetto di studi recenti è il tarassaco TKS (Taraxacum kok-saghyz),          

Taraxacum kok-saghyz, spesso abbreviato in TKS e comunemente indicato come Tarassaco russo, dente di leone kazako, radice di gomma, è una specie di dente di leone originaria del Kazakistan, della Kirghizia e dell’Uzbekistan, che si distingue per la sua produzione di gomma di alta qualità

detto Tarassaco russo ma originario del Kazakhstan e infatti noto anche come dente di leone kazako. In realtà, le prime coltivazioni sperimentali in Russia e negli Stati Uniti erano state avviate già durante la Seconda guerra mondiale, quando si incominciò a temere il rischio di prolungate interruzioni degli approvvigionamenti di latice dall’Asia Il tarassaco, a parità di terra coltivata, rende circa dieci volte di meno rispetto alle coltivazioni  di Hevea, ma sono in fase di studio procedure e tecniche per avviare coltivazioni verticali. Il processo di estrazione del latice è completamento diverso, prevede la distruzione delle piante, con spremitura delle radici essiccate, ma il raccolto è pronto in tre mesi e si producono inoltre molti semi che possono rapidamente essere ripiantati.

Un’altra pianta oggetto di studi e attenzioni recenti è il già citato guayule (Parthenium argentatum), arbusto legnoso originario del territorio mesoamericano, in particolare il Messico, da tempo utilizzato per la produzione di un latice che non provoca le allergie note al latice della gomma; ne esistono estese piantagioni in Arizona, e l’ENI ne ha avviato una coltivazione sperimentale in Sicilia. Nei primi due anni la pianta non dà raccolto, ma dal successivo rende raccolti annuali

Il guayule (Parthenium Argentatum) ha dimostrato di essere una promettente fonte di gomma naturale di elevata qualità, richiede poca acqua e presenta proprietà ipoallergeniche, a differenza della più comune gomma da Hevea (caucciù).

Sicilia: piantagioni di Guayule

Un altro indice di attenzione al problema –  visto che si prevede che, soprattutto con la crescita del mercato delle automobili nei paesi in via di sviluppo, la domanda mondiale di gomma naturale continuerà a crescere –  viene proprio da alcuni grandi acquirenti di gomma, i produttori di pneumatici Bridgestone, Continental e Goodyear, i quali hanno sancito un accordo (Global Platform for Sustainable Natural Rubber) per vietare l’acquisto di gomma coltivata in aree sottoposte a deforestazioni recenti.

E infine, un segnale positivo viene anche da alcune multinazionali che si occupano della catena di approvvigionamento e vendita di beni di consumo a livello mondiale e che stanno cercando di promuovere l’introduzione di un prezzo minimo per la gomma, così da realizzare quelle condizioni di base, come nel commercio equo e solidale già presente per caffè e cacao, che potrebbero garantire il sostentamento dei piccoli proprietari nei paesi in via di sviluppo.

dalla raccolta…

al passaggio in teglia… e infine ai panni di latice stesi ad asciugare

per raggiungere poi ogni parte del mondo e diventare

Laccio emostatico

Palloncini
Tubo di Caucciù

Abito latex verde fluo
Corsetto in latice elastico

Materasso in latice naturale

un famoso Omino
Gomma
Pneumatico

e molto altro ancora …

___________________

La Dermatologia in Medicina Funzionale

Funzionale

Perché questo aggettivo?

Se guardiamo sul dizionario, funzionale ha un significato specifico in medicina, e cioè “che riguarda le funzioni di un organo (si contrappone in genere a organico): sindrome funzionale, sintomi e disturbi funzionali… si riferiscono alla funzione di un organo e non ad alterazioni chiaramente individuabili della sua struttura anatomica”.

E se l’aggettivo ben si presta a qualificare una visione particolare della medicina generale, non c’è dubbio che possiamo usarlo per indicare una altrettanto specifica visione della dermatologia, quando prendiamo atto che l’organo pelle può facilmente essere terreno di risposta per motivazioni che partono da altri organi o anche da molteplici fattori che interferiscono nella vita quotidiana, come l’ambiente in cui viviamo, le abitudini alimentari, l’esposizione a sostanze chimiche …

Si tratterà quindi di considerare, nella diagnosi e terapia delle malattie dermatologiche, l’attuazione di un metodo che veda il paziente come entità biologica e come persona, rimanendo comunque nell’ambito della medicina tradizionale. Non una visione restrittiva, anzi: quando la pelle si altera, e manifesta lesioni non transitorie ma che tendono a ripetersi e a permanere nel tempo, la dermatologia funzionale non si limiterà ad aggredire i sintomi, ma cercherà di indagare sulle connessioni tra i sistemi e le funzioni,  di studiare i meccanismi che innescano gli squilibri e di trovare i mezzi terapeutici che riportino all’equilibrio e quindi al benessere: impresa non semplice né facile, certamente, che richiede di avvalersi di una conoscenza profonda della  fisiologia umana di base, e di tener conto anche dei dati – in continua evoluzione – che emergono nell’ambito di scienza nutrizionale, di biochimica, di genetica ed epigenetica…

Una visione globale, dunque, che tenga conto del passato per realizzarsi nel presente e proiettarsi nel futuro.

L’obiettivo primario è il ripristino delle normali, fisiologiche funzioni dell’organo che stiamo considerando, e questo tipo di approccio non è né alternativo né in conflitto con la medicina curativa; si concentra sulla prevenzione del male, cercando di coltivare una visione di insieme della persona.

Abbiamo ritenuto un successo – e certamente deve ancora essere considerato tale – la conquista di farmaci a risposta rapida sui sintomi di certe patologie cutanee: così, chiazze di eczema irriducibili, brutte da vedere e pesanti da gestire per sintomi fastidiosi come bruciore e prurito, che recedono rapidamente con l’applicazione di una pomata al cortisone… che scoperta meravigliosa!

Salvo poi dover constatare che spesso il problema si ripresenta puntuale – e a volte peggiorato – non appena si smette il farmaco. Si aggredisce il sintomo, ma se non cessa anche la causa che lo produce, le cose non cambiano, e i problemi si cronicizzano.

Quando devo spiegare un fatto del genere ai pazienti, di solito ricorro all’esempio della macchia di umidità sul muro: si può provvedere a coprire la macchia con una ripassata di intonaco, quella che comunemente si chiama “una man di bianco”, e può anche andar bene. Ma se la comparsa della macchia è correlata a un tubo nascosto che perde, si ripresenterà ben presto: sarà quindi opportuno indagare anche da un punto di vista idraulico, cercare l’origine della perdita, e riparare il danno a monte. Aggredire il sintomo può andar bene, non è da escludere e demonizzare, può anzi essere di grande utilità e sollievo, ma se il danno si ripete e continua, e cioè – parlando in termini medici – se il fatto acuto si risolve solo temporaneamente e la malattia diventa cronica, ecco che sarà opportuno allargare la visuale e cercare le cause sottostanti.

In realtà, programma non nuovo, nella storia della medicina. Corsi e ricorsi della storia, l’appuntamento con questo punto di vista si era già realizzato nei passaggi del pensiero medico attraverso i secoli, e così, se disponessimo di una sorta di drone per sorvolarne l’evoluzione nel tempo come fosse un paesaggio, potremmo ritrovarlo e coglierne i diversi aspetti (fino a qualche anno fa si sarebbe detto “osservare un paesaggio a volo di uccello”, ma la proposta attuale vuole coinvolgere un enorme intervallo spazio-tempo, meglio dunque ricorrere a un mezzo moderno)

Voliamo quindi con il nostro drone immaginario fino agli inizi della storia della medicina ufficialmente nota nella nostra area occidentale, arriviamo addirittura a quello che è considerato il padre della medicina: Ippocrate di Kos, IV secolo a.C., e già in lui troveremo il concetto che lo studio dello stile di vita del malato, tenendo presenti i suoi molteplici elementi  costitutivi (dietetici, atmosferici, psicologici e anche sociali) permette di comprendere e sconfiggere la malattia.

Risalendo nel tempo, come pietra miliare nella storia della medicina incontriamo Galeno – e siamo nel II secolo d.C. – che ripropone e rielabora la teoria umorale ippocratica, in cui la salute è vista come armonico equilibrio di quattro umori principali e la malattia come rottura di tale equilibrio (i quattro umori, derivati da Ippocrate, erano: bile gialla, bile nera, sangue, flegma).

Questa teoria avrebbe retto, fra alti e bassi, affermazioni e incertezze, per altri millecinquecento anni: fino al 1858, quando il patologo tedesco Rudolf Virchow pubblica i suoi studi con lo scopo “…di fornire un panorama sulla natura cellulare di tutte le forme viventi, di quelle fisiologiche e patologiche, di quelle animali e vegetali, e di richiamare nuovamente alla coscienza l’unità della vita in tutte le forme organiche, contrariamente alle unilaterali tendenze umorali e neurali…” .

     “La mente umana è semplicemente troppo incline
ad abbandonare la via faticosa del ragionamento scientifico
e a sprofondare nella fantasticheria”
Rudolf Ludwig Karl Virchow (Świdwin, 1821 –  Berlino, 1902)

Per interpretare il rapporto causa/effetto tra stato di salute e malattia, viene quindi proposta la teoria cellulare, per cui

  • tutti gli organismi viventi sono costituiti da cellule
  • la cellula è l’unità strutturale e funzionale dei viventi
  • ogni cellula deriva da una cellula madre

 (le prime “cellule” erano state descritte nel 1665 dall’inglese Hooke che aveva osservato, con uno dei rudimentali microscopi di allora, numerose cellette vuote in una sottile sezione di sughero: egli però non collegò quelle piccole cavità alla struttura vivente, si limitò a dar loro un nome)

uno dei primi microscopi

e le “cellule” del sughero, disegnate da Hooke

Il Virchow aveva ripreso in considerazione Giovanni Battista Morgagni, che nel 1761 aveva pubblicato il primo testo di anatomia patologica (le malattie sono in correlazione con alterazioni degli organi: patologia organica)

per passare poi a Marie François Xavier Bichat (1771 – 1802) fondatore dell’istologia moderna, che chiarisce come gli organi del corpo umano siano costituiti da tessuti: (patologia tissutale).

Ritratto di Bichat, 1799.

Singolare personaggio, il Bichat: grande intuizione, capacità di ricerca e di sintesi, con una rapidità conclusiva febbrile  (forse da interpretare anch’essa come “funzionale”, se la ricolleghiamo al fatto che era ammalato di tubercolosi, tanto da morirne a trent’anni?…).  Lo troviamo citato nei nostri testi per aver dato il suo nome a strutture anatomiche, la più nota delle quali è sicuramente “la bolla di Bichat”, piccola sacca di grasso permanente situata nella massa muscolare della guancia, evidente soprattutto nel neonato (la sua funzione è quella di sostenere la guancia durante la poppata), che si riduce col passare degli anni ma non scompare mai del tutto, neanche nei gravi stati di denutrizione.

E proprio questa piccola struttura ha trovato una sua fama negativa nell’attualità della chirurgia estetica, tanto che si è coniato il termine di Bichectomia ad indicare un intervento assai richiesto, che consiste appunto nella asportazione della bolla del Bichat in omaggio agli ultimi e più inseguiti canoni di bellezza del volto, che dovrebbe configurarsi “a triangolo”, con zigomi alti e guance scavate.

Riprendendo il nostro passaggio sugli orientamenti del sapere medico, consideriamo che dopo il paradigma cellulare si è fatto strada quello istologico, e successivamente il microbiologico, dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento, quando in pochi anni gli scienziati scoprono  il plasmodio della malaria, la salmonella del tifo,  lo pneumococco, il mycobacterium della lebbra, il bacillo della tubercolosi, il vibrione del colera … Si afferma allora che  “il microbo è tutto”, nella patogenesi delle malattie.

Ma naturalmente, con il procedere delle scoperte, si passerà poi a considerare anche le correlazioni chimiche delle funzioni corporee: nel 1905 Starling proporrà il termine di “ormoni” per le sostanze secrete dalle ghiandole endocrine, e si farà strada la teoria biochimica nella spiegazione degli eventi patologici.

Dovranno passare ancora alcuni decenni, perché il cerchio si chiuda, e si consideri l’insieme delle conoscenze, e non i singoli spezzoni: quindi il concetto di cellula perderà la sua connotazione di pura astrazione morfologica, per inserirsi nel suo ambiente vitale. Si riprende in qualche modo la teoria umorale, considerando che i filtrati organici fisiologici devono contribuire alla stabilità dei tessuti.

Alfred Pischinger (1945) dimostra che la matrice extracellulare (da allora chiamata anche spazio di Pischinger) formata da tessuto connettivo, capillari, nervi e canali linfatici costituisce il 70% del nostro corpo, mentre il volume cellulare ne occupa il 30%. Si fa strada la prima idea di quella che si chiamerà medicina funzionale, che vede l’accumulo di tossine e di scorie metaboliche in alcuni tessuti come possibile fonte di disturbo e di malattia, capaci di manifestarsi anche a distanza di spazio e tempo.

Arriveremo poi alla fine del XX secolo per trovare i primi studi sulla dimostrazione di microrganismi che contengono antigeni in grado di innescare reazioni autoimmunitarie nell’ospite, se l’ospite ha caratteristiche genetiche che lo rendono disponibile: ecco quindi riaffacciarsi   il concetto di “terreno” e di persistenza di messaggi biologici alterati, come possibile causa di malattia.

          Noi siamo più vecchi degli antichi, questa è la nostra realtà:

abbiamo dunque tutto un patrimonio di conoscenza da ricordare, da considerare ma talvolta anche da ricusare, e su questa base dobbiamo di volta in volta saper inserire i risultati di nuove ricerche, scoperte, orientamenti.

ancora CoViD-19

reazioni della pelle, i nuovi vaccini, … e qualche nota storica sulle vaccinazioni

E’ ormai passato un anno da quando si è affacciata sull’intero pianeta, progressiva e ineluttabile, questa “nuova” malattia: la Malattia da Corona Virus 2019, CoViD (Corona Virus Disease)-19

E siamo ancora qui a parlarne e a viverla. L’abbiamo inizialmente anche negata, o  misconosciuta. Poi abbiamo sperato in un suo rapido, transitorio, effimero passaggio: così non è stato, e adesso dobbiamo discutere di prima, seconda e terza ondata… Più recentemente, anche delle sue mutazioni, con la comparsa e la rapida diffusione delle varianti c.d. inglese, sudafricana, brasiliana e altre ancora.

Nel frattempo, però, la malattia è stata studiata, in tutto il mondo,  con molta serietà e capacità di indagini e di approfondimento. ( Anche con molte chiacchiere superficiali, a dire il vero,  e con tanti pseudoscienziati che si sono arrampicati sul carro dei ricercatori effettivi… ma questo fa parte del comportamento umano). Tutti i possibili organi bersaglio del virus SARS-CoV2 sono stati esaminati, ogni sintomo è stato rilevato e segnalato: si è avuto così conferma, dopo le segnalazioni iniziali, di quanto anche la pelle possa accusarne l’impatto e reagire, manifestando tutto un suo corredo di sintomi.

   Le reazioni cutanee

Le prime segnalazioni, già in febbraio-marzo 2020, erano state relative a fenomeni di vasculite e alla comparsa di lesioni cutanee periferiche a tipo di geloni.         

Un tempestivo e accurato studio è stato fin da subito avviato dalla Università di Milano, a cura del Professor Marzano, Direttore della Scuola di Specializzazione in Dermatologia, e le prime conclusioni, su 200 pazienti in tutta Italia, hanno permesso di identificare almeno 6  quadri:

  1. Eruzioni orticarioidi
  2. Eruzione morbilliforme diffusa
  3. Eruzione vescicolosa a tipo di varicella
  4. Lesioni tipo geloni
  5. Livedo reticularis, a tipo di ecchimosi
  6. Vasculite, con possibili ulcere agli arti inferiori

Come si vede, una discreta panoramica sintomatologica. 

Altre segnalazioni sono state poi, nel tempo, processate e scartate perché aspecifiche: ad esempio, una accentuata secchezza della pelle (che si può ragionevolmente ascrivere alle eccessive manovre di lavaggio ed igienizzazione), certe forme di dermatite da contatto, soprattutto alle mani (correlate all’uso ripetuto di gel antisettici). Per contro, molto suggestiva anche se aneddotica, la segnalazione di miglioramento, in corso di Covid-19, di pregresse malattie cutanee croniche: viene segnalato il caso di un paziente di 56 aa., ricoverato per Covid-19 all’Ospedale Militare Celio di Roma, che mostra un subitaneo alleggerimento sintomatico della sua grave psoriasi palmoplantare.  L’ipotesi interpretativa è che, nella tempesta citochinica indotta dall’infezione virale, una via infiammatoria abbia spiazzato l’altra, una specie di concorrenza nel contendersi lo spazio disponibile. In questo caso, la malattia nuova ha attenuato, se non spento, la preesistente.

In origine, un evento simile era stato descritto in pazienti con alopecia areata e psoriasi, che presentavano la ricrescita dei capelli nelle lesioni psoriasiche.

Quasi un fenomeno di Köbner inverso, e quindi denominato fenomeno di Renbök (1991,Happle et al.)

   Fenomeno di “ Köbner”:  Heinrich Köbner (1838 – 1904), dermatologo dell’Università di Breslavia, noto per le sue ricerche sulla psoriasi, aveva descritto questa particolare reazione cutanea, reazione isomorfa, per cui un trauma risveglia sulla pelle indenne le stesse manifestazioni della dermatosi presente in altre zone (ma a volte anche prima che la malattia stessa si sia manifestata!). Così, un graffio su pelle sana di un malato psoriasico risveglia la psoriasi sul tragitto del graffio stesso.

           e fenomeno “Renbök” : è l’ortografia inversa di Köbner, in caso appunto di risposta inversa

La ricerca di un vaccino

Fin dal primo insorgere della malattia, si sono naturalmente avviate le grandi ricerche su terapia e prevenzione, e si sono letteralmente bruciate le tappe nel programmare e allestire dei vaccini funzionali, affidabili, efficaci: ci vogliono anni, per mettere a punto un farmaco o un nuovo vaccino, e soprattutto per collaudarne l’affidabilità e la sicurezza, per sorvegliarne gli effetti a distanza. Ma qui non c’era tempo, l’emergenza si faceva via via sempre più drammatica: e i vaccini anti-Covid sono arrivati, e sono già in uso, in tutto il mondo.

…e qualche nota storica sulla vaccinazione

Ma cosa sono, i vaccini?

vaccini sono sostanze che contengono quantità inattivate o indebolite dei germi responsabili della malattia che si vuole scongiurare:

iniettati nel nostro organismo, producono una risposta immunitaria, attivano cioè gli anticorpi capaci di riconoscere e neutralizzare quegli stessi germi ogni volta che li incontreranno.

Idea antica, quella di cercare di prevenire il male preparando il corpo a riconoscere il nemico: una possibile strategia vincente era sembrata quella del mitridatismo (dal nome di  Mitridate VI Eupatore, re del Ponto nel I secolo a.C., che sarebbe diventato resistente all’azione dei veleni, ingerendone dosi minime ma progressivamente crescenti, e salvandosi così dall’ avvelenamento, modalità di eliminazione che pareva essere diventata una prassi comune nella sua famiglia…).

Moneta di Mitridate VI Eupatore

Il mitridatismo si verifica soprattutto se il veleno viene assunto per via orale, ed è dovuto a un aumentato processo di smaltimento o a un diminuito assorbimento intestinale.  Non funziona con tutti i veleni, la sua efficacia dipende dal tipo di tossina; inoltre, può portare all’accumulo di sostanze tossiche nell’organismo

In pratica, sono pochi gli usi che ha oggi il mitridatismo, però può essere efficace negli studiosi e operatori zoologici che lavorano con animali velenosi come scorpioni e serpenti: è stato infatti testato con successo in Australia e Brasile, garantendo resistenza ai morsi ripetuti di cobra e crotali. Si tratta di un meccanismo connesso a modificazioni locali indotte dal veleno stesso negli organi in cui viene assorbito: ben diverso quindi dalla assuefazione, che è invece un processo di adattamento di tutto l’organismo nei confronti di una sostanza, più o meno tossica, progressivamente tollerata anche a dosi elevate per una aumentata capacità di metabolizzarla (classico esempio, la morfina).

Un autorevole conforto alla tesi dell’innocuità e utilità delle dosi minime era poi stato ribadito, circa cinque secoli dopo Mitridate, con l’affermazione:

Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit.  Dosis sola facit, ut venenum non sit

(Tutto è veleno: non esiste nulla senza veleno. Solo la dose fa, che veleno non sia

Lo aveva affermato Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, medico, botanico, astrologo svizzero nato nel 1493 (un anno dopo la scoperta dell’America: il mondo stava cambiando…) che aveva poi sostituito il suo bel nome altisonante con Paracelso o Paracelsus  in onore di Celsus, enciclopedista del I secolo d.C, autore di un noto Trattato di Medicina. Laureato all’Università di Ferrara, è considerato fondatore della iatrochimica, la scienza che applica la chimica alla terapia medica, e quindi precursore della farmacologia.

Bene: tutta questa lunga digressione per chiarire che le  modalità di difesa sopra descritte non hanno nulla a che vedere con la vaccinazione.

Dovevano passare almeno altri due secoli, prima di arrivare alla  vaccinazione vera e propria, la vaccinazione  Jenneriana.

Edward Jenner    (Berkeley,  1749 – 1823)    medico inglese, ebbe modo di osservare e studiare una delle malattie più gravi e diffuse, ai suoi tempi: The Speckled Monster (il Mostro maculato)

Il vaiolo

il vaiolo (infezione virale, da Orthopoxvirus, ma allora non si sapeva) di cui egli stesso aveva sofferto nell’adolescenza, evidentemente nella forma più lieve, da variola minor, mentre chi era colpito da variola vera o emorragica facilmente ne moriva, o ne restava gravemente segnato. Intorno al 1720, per combattere il vaiolo era stata introdotta anche in Inghilterra la pratica della variolazione, soprattutto ad opera di Lady Mary Wortley Montague, moglie dell’ambasciatore britannico a Costantinopoli, che l’aveva vista applicare durante il suo soggiorno in quel Paese.

Lady Mary Wortley Montague

Si trattava di un metodo di origine molto antica, che cercava di proteggere dalla malattia inoculando, nel soggetto sano, del materiale prelevato da lesioni vaiolose o dalle croste di pazienti non gravi, in modo da indurre una forma di malattia più leggera, che portasse alla guarigione e alla immunizzazione: ma non funzionava sempre, sembra ci fosse una percentuale di insuccessi del 30%. E inoltre, durante questo processo, il malato era contagioso.

Ai tempi di Jenner, era ormai ben noto che anche gli animali – in particolare i bovini – potevano essere colpiti da una malattia simile al vaiolo umano, ma più lieve, detta cowpox: se chi mungeva le vacche affette dalla eruzione pustolosa cowpox contraeva l’infezione, presentava solo una modesta sintomatologia, ne guariva presto, e sfuggiva poi al vaiolo o smallpox.

“I cannot take smallpox, because I have had cowpox”  erano soliti ripetere i contadini, e fu questa affermazione che portò Edward Jenner all’ipotesi che non solo il vaiolo vaccino potesse proteggere dal vaiolo umano, ma che potesse anche essere trasferito da una persona all’altra come meccanismo di protezione.

Così, quando gli si presentò l’occasione di provare dal vivo la sua teoria, egli non esitò a coglierla, e abbiamo tutti i dettagli dell’esperimento:

siamo nella primavera del 1796

Sarah Nelmes, una mungitrice che ha una eruzione cutanea vescicolosa e pustolosa su una mano, gli conferma che la sua mucca Blossom, di razza Gloucester, ha sofferto recentemente di cowpox: il dottor Jenner decide   di provare a trasferire  l’infezione su qualcuno che non abbia sicuramente mai avuto il vaiolo, e così  il 14 maggio procede sul piccolo James Phipps, di 8 anni, figlio del suo giardiniere: gli pratica alcune incisioni sul braccio, e vi introduce il materiale estratto da una pustola della mano di Sarah

(nota di attualità, ai tempi di chi scrive: diritti del  fanciullo ?… tutela dell’infanzia ?…)

 
Dopo qualche giorno, il bambino manifesta una forma leggera di cowpox, ma si riprende benissimo in una settimana

  • prima conferma: il cowpox può essere trasmesso da una persona ad un’altra, così come avviene tra una mucca e un umano.

Il passo successivo, molto rischioso, consiste ora nel dimostrare che  il  cowpox protegge James dallo smallpox.

Il 1° luglio si  presenta l’occasione, e Jenner inocula il virus del vaiolo umano a James.

Come aveva pensato, e indubbiamente con suo grande sollievo, non si assiste allo sviluppo della malattia: il bambino è salvo, sta bene, la protezione è acquisita. 

  • seconda conferma: l’inoculazione con l’innocuo cowpox immunizza dal ben più grave smallpox.

Un paio d’anni dopo, Jenner scrisse An Inquiry Into Causes and Effects of the Variolæ Vaccinæ, un’inchiesta contenente 23 casi in cui l’inoculazione del cowpox aveva significato un’immunizzazione contro lo smallpox. In questo documento venne utilizzato per la prima volta il termine virus. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta si iniziò la pratica della vaccinazione di cowpox, che si diffuse ben presto in tutta l’Inghilterra, per poi passarne i confini e ottenere credito e attuazione in tutta Europa. Napoleone lo rese obbligatorio per il suo esercito; nel 1820, il vaccino aveva già fatto il giro di tutto il mondo.

Gli ultimi casi di vaiolo vennero segnalati in Somalia, nel 1977.

Nel 1980, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha raccomandato la sospensione della pratica routinaria della vaccinazione anti-vaiolosa, e ha dichiarato eradicata questa infezione.

Piccola nota lessicale: con “vaccino” ( = di vacca, dal latino)  si indicava allora il vaiolo delle mandrie, ed era l’equivalente scientifico del gergale cowpox: ma da quel  momento il termine vaccino acquisì un significato universale e venne poi progressivamente usato per indicare    qualsiasi sostanza in grado di produrre immunità e impedire lo sviluppo di una malattia.

Quasi un secolo dopo, in un’altra tappa storica fondamentale nella ricerca di prevenzione e cura delle malattie infettive, Louis Pasteur, chimico e microbiologo francese, individua ed isola il microorganismo responsabile del  carbonchio, che uccide il bestiame, dimostrando in modo definitivo la teoria del contagio, e sperimenta con successo un vaccino contro il carbonchio su 25 pecore, dando così inizio all’era della vaccinazione preventiva nei confronti delle malattie infettive. Egli è però  passato alla storia soprattutto per aver realizzato il vaccino contro la rabbia, terribile malattia virale animale e umana (singolare destino, anche allora il primo esperimento umano si verificò in un bambino: il 6 luglio 1885, gli fu portato il piccolo alsaziano Joseph Meister, di nove anni, che due giorni prima era stato morso da un cane rabido, e presentava 14 ferite sul corpo. Glielo portò la madre, disperata, perché quelle ferite significavano morte certa, e sarebbe stata morte tra spasimi atroci. Pasteur procedette allora con la vaccinazione tramite “coltura attenuata”, procedura non semplice né leggera per il bambino, 13 iniezioni in 10 giorni, e lo salvò).




Pasteur non era un medico, praticare direttamente le inoculazioni lo avrebbe reso oggetto di forte critica da parte della comunità scientifica; chiese quindi al medico Jean-Baptiste Jupille di effettuare le iniezioni, sotto la sua supervisione

Joseph Meister resterà per sempre legato al suo salvatore; studierà e diventerà collaboratore dell’Istituto Pasteur, fondato a Parigi nel 1888

Seguiranno poi tutti gli altri vaccini progressivamente individuati e attuati, contro malattie flagello dell’umanità, dalla tubercolosi al tetano alla  poliomielite e molte altre ancora… fino ai giorni nostri, fino ai

Vaccini anti-Covid

Come già detto, la ricerca di un vaccino contro il SARS-CoV-2 è stata subito vissuta come urgente e inderogabile, e quando la sequenza genetica del virus è diventata disponibile, all’inizio di gennaio 2020, si è avviata a una velocità senza precedenti: già nel settembre 2020 c’era segnalazione di ben 180 vaccini a varie fasi di sviluppo, anche se non tutti questi studi verranno completati e andranno a buon fine (ad esempio, il 25 gennaio 2021 proprio l’Istituto Pasteur ha annunciato lo stop allo sviluppo del suo principale progetto di vaccino contro il Covid-19, in partnership con il gruppo Merck MSD, poiché i primi test hanno mostrato minor efficacia di quanto si sperasse).

Fra i primi ad ottenere l’approvazione all’uso da parte della FDA (l’ente governativo statunitense di sorveglianza e regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici) sono stati due vaccini a mRNA, Pfizer- BioNTech e Moderna COVID-19, successivamente autorizzati in Europa il 21 dicembre 2020 (Pfizer), e il 6 gennaio 2021 (Moderna).

I virus SARS-CoV-2 utilizzano una proteina  denominata Spike per entrare nelle cellule: questi vaccini cercano di indurre una risposta, per impedire al virus di riprodursi, utilizzando molecole di Acido Ribonucleico messaggero (mRNA) che istruiscono le  cellule, senza modificarne il patrimonio genetico,  entrando nella catena di montaggio affinché costruiscano copie della  proteina stessa.  Tale processo stimolerà la produzione di anticorpi specifici: quindi, se l’individuo vaccinato sarà esposto al contagio virale, scatterà la risposta del sistema immunitario che riconoscerà il virus e sarà pronto a combatterlo.

I vaccini a mRNA fanno sintetizzare la proteina direttamente dalle cellule del muscolo in cui vengono iniettati,  e questo ha permesso di accelerare il loro uso, non essendo necessarie tutte le verifiche di purezza come quando si introduce una proteina prodotta esternamente.

Entrambi i vaccini che stiamo considerando sono formulati con nanoparticelle lipidiche e modificati con nucleosidi che codificano per la glicoproteina S; per quanto concerne eccipienti e additivi, hanno una composizione molto semplice, per cui il rischio allergico è veramente ridotto. I tappi delle fiale non contengono latice naturale di gomma,  per  non costituire controindicazione all’uso nei soggetti allergici al latice; inoltre, non contengono uova o gelatina. Teorica, ma possibile, è l’allergia al suo componente polietilenglicole (PEG);  e anche una eventuale allergia al polisorbato viene considerata motivo di allarme, perché questa sostanza può dare una reazione di allergia crociata con il suddetto PEG.

(…mi permetto una nota di spiegazione su questo punto che può sembrare oscuro, vago, e anche allarmante:  in realtà, è uno dei tanti  avvertimenti “dovuti” nelle note di presentazione di un farmaco. Se esiste una possibilità di reazione avversa, l’utente deve saperlo. Il legislatore si assume l’incarico di segnalarlo, deve sempre poter affermare “io te lo avevo detto…”: per chiarezza, e anche per difesa, nel timore di accuse e ritorsioni successive a eventuali danni correlabili all’uso del farmaco stesso, o, in questo caso, del vaccino.

Il PEG è una sostanza universalmente nota e di uso diffuso, nella vita quotidiana, in gel, unguenti, emulsioni… ma anche in sciroppi,  compresse, e nel confezionamento di alimenti. E’ inoltre usato nelle pitture ad acqua, nell’industria ceramica, in operazioni di formazione dei metalli. Uno dei suoi impieghi più particolari e affascinanti, ad iniziare dagli anni sessanta del secolo scorso, è stato come consolidante dei reperti lignei archeologici trovati sott’acqua (sic!): e mi riferisco in particolare a quell’opera straordinaria che è stato il recupero del Vascello Vasa, a Stoccolma. Il vascello era affondato nel porto di Stoccolma il giorno stesso del varo, il 10 agosto 1628. Dopo essere rimasto oltre tre secoli sott’acqua è stato ripescato nel 1961 e sottoposto al restauro. Il Museo Vasa, che lo ospita, venne inaugurato nel giugno 1990.

Il Vascello Vasa, ristrutturato con il PEG

I Polisorbati sono degli emulsionanti di uso alimentare, cosmetico, farmaceutico. Sono dei copolimeri che si ottengono da sorbitolo e ossido di etilene: ricordo che il sorbitolo si ricava dal Sorbus aucuparia o albero degli uccellatori, ed è usato come dolcificante alimentare con la sigla E420.

Sorbus aucuparia o albero degli uccellatori

Vecchie conoscenze, quindi, direi quasi familiari… Sono stati comunque responsabili – se pur raramente – di orticaria e dermatiti allergiche, ed ecco quindi giustificato il richiamo di attenzione nella segnalazione degli eventuali eventi avversi correlati all’uso dei vaccini sopra descritti.

….e chiusa parentesi).

   Riepilogando, le caratteristiche di questi due vaccini a mRNA sembrano promettenti per un buon risultato, a basso rischio. La difficoltà pratica più evidente ha sempre riguardato la loro conservazione, che comporta l’uso di basse temperature (fra i -80 e i -60 ° C, anche se osservazioni più recenti sembrano dare la possibilità di conservarli a temperature più elevate);

funzionano con due dosi, per iniezione intramuscolare, a distanza di 21-28 giorni l’una dall’altra

non sono consigliati  per soggetti di età inferiore ai 16 anni (Pfizer) e 18 anni (Moderna)

sono nuovi: non possiamo evidentemente conoscerne ora gli  eventuali effetti a medio e a lungo termine (2 – 5 anni);

è confermata la protezione dalla malattia grave (efficacia intorno al 95%) ma ci vorrà più tempo per capire se i soggetti vaccinati possono comportarsi come asintomatici a bassa carica, potenzialmente infettivi, anche se meno degli attuali asintomatici naturali: di conseguenza, chi è stato vaccinato può esporsi a rischio infezione e promiscuità, ma deve continuare a portare la mascherina per non infettare altri.

   Segnalazione di risposta cutanea ai vaccini anti-Covid

Ma dopo aver  concluso che il rischio allergico con i vaccini a mRNA sembra piuttosto basso… è doveroso citare un comportamento reattivo al vaccino Moderna: già il 17 dicembre 2020, la FDA segnalava – nell’ambito della sperimentazione di tale vaccino – tre casi di reattività cutanea in pazienti con pregresso impianto di filler di Acido ialuronico, a fine estetico. Il primo paziente aveva effettuato il trattamento sei mesi prima, il secondo due settimane prima di sottoporsi al vaccino, il terzo aveva una storia di trattamenti con filler in periodi non precisati e aveva riscontrato  la medesima reazione  anche in precedenza, con il vaccino anti-influenzale

In tutt’e tre i casi, il segnale di reazione consisteva in edema localizzato nella sede di iniezione del filler, 1-2 giorni dopo la vaccinazione: la FDA conclude che “è possibile che l’edema localizzato in questi casi sia dovuto ad una reazione infiammatoria da interazione tra la risposta immunitaria dopo vaccinazione ed il filler dermico”.

Le manifestazioni cutanee si sono risolte rapidamente, e senza esiti, con terapia cortisonica locale e antistaminica sistemica.

Niente di grave, dunque, e la presenza di filler non costituisce controindicazione al vaccino, comporta però la raccomandazione di informarne i pazienti e di non effettuare le iniezioni estetiche in concomitanza o a ridosso delle pratiche vaccinali.

Il vaccino Astra-Zeneca/Università di Oxford (ChAdOx1 nCoV-19 o AZD1222)

   Dopo i primi vaccini a mRNA che abbiamo visto, è arrivato quello di AstraZeneca e Università di Oxford, con la pubblicazione dei suoi dati su efficacia e sicurezza già ai primi di dicembre 2020 su The Lancet.

A fine dicembre il Governo britannico ne ha concesso l’autorizzazione  in emergenza per l’uso in Gran Bretagna.

 A fine gennaio 2021 l’EMA (European Medicines Agency) lo ha approvato, e dal febbraio ’21 si sta effettuando anche in Italia:

è indicato nella fascia di età 18 – 65 anni;  (ma il 18 febbraio 2021 l’EMA scrive: COVID-19 Vaccine AstraZeneca is a vaccine for preventing coronavirus disease 2019 (COVID-19) in people aged 18 years and older);

presenta una buona stabilità, che non richiede temperature eccessivamente basse per la conservazione e il trasporto;  

previste due dosi, per iniezione intramuscolare, ad un intervallo di 10 – 12 settimane.

L’efficacia sembra essere un po’ meno alta, rispetto ai vaccini a mRNA: in uno studio si attesta intorno al 70%, ma sale al  90% nei partecipanti che hanno ricevuto soltanto mezza dose alla prima somministrazione, e una seconda dose piena ( e questo comportamento apparentemente poco coerente è oggetto di studio).

AstraZeneca/Oxford è del tutto diverso dai vaccini Pfizer/BioNTech e Moderna: lo scopo è sempre quello di indurre una risposta immunitaria contro la famosa proteina Spike, ma qui si tratta di un vaccino a vettore virale, ed è stato usato come vettore l’Adenovirus degli scimpanzé ChAdOx1  (Chimpanzee Adenovirus Oxford 1), un virus responsabile del raffreddore  comune in questi animali. (La stessa tecnologia del primo vaccino approvato contro il virus Ebola alla fine del 2019, l’unico disponibile, fino ad oggi,  basato su un vettore virale; sono in corso studi per applicarla contro il virus HIV e il virus Zika).

In pratica, in cosa consiste questa tecnologia?

Una versione indebolita dell’adenovirus degli scimpanzè (incapace di replicarsi e innocua per l’organismo umano) nella quale è stato inserito il materiale genetico della proteina Spike, viene utilizzata come vettore ovvero come tramite per introdurre nelle cellule umane il materiale genetico della proteina Spike, quella che permette al virus SARS-CoV-2 di innescare l’infezione responsabile di COVID-19.(da un’intervista al dottor Michele Lagioia, Direttore Medico Sanitario di Humanitas)

Ecco, questa è la metodica da seguire! Non so voi, ma io resto sempre disorientata, confusa e direi quasi mortificata davanti a questi discorsi… Se ne parla come fosse una ricetta di cucina, adesso che son tanto di moda gli chef che spiegano come preparare piatti elaborati e raffinati facendoli sembrare semplici e realizzabili da tutti, del tipo: “svuotate i pomodori,  farciteli con il ripieno e passateli al forno”…

E allora: “si prende il materiale genetico della proteina Spike, lo si inserisce nell’Adenovirus dello scimpanzé…”.

Semplice, vero?

Mah! E comunque, è vero che lo sanno fare.

Altri vaccini?

   Certamente arriveranno proposte nuove, si è in attesa di vaccini che siano efficaci con una sola iniezione, e risulta che siano già in via di approvazione.

La complessa macchina della vaccinazione si è comunque messa in moto in buona parte del mondo, e procede più o meno speditamente, tra speranze, incertezze, slanci di ottimismo e nicchie di rifiuto, con inevitabili risvolti commerciali e qualche intoppo organizzativo… Ma è  pur sempre un percorso positivo, una via in più: si muove lungo un tracciato aperto oltre due secoli fa e, accanto alle procedure terapeutiche che si stanno continuamente affinando nel trattare la malattia conclamata, può darci una buona possibilità di prevenzione per affrancarci presto anche  da questa lunga pandemia.

LA PELLE AI TEMPI DEL CORONA VIRUS

 

Ovvero

 Sintomatologia cutanea in corso di CoViD-19

(Corona Virus Disease 2019)

 

Aprile 2020, sto scrivendo mentre siamo in piena pandemia di  CoViD-19.

La malattia si è ormai manifestata in tutto il mondo:  ancora in crescita in alcuni Paesi, ha iniziato a regredire nelle zone in cui aveva esordito e, lungi dall’essere sotto controllo e ben conosciuta, incomincia però a dare alcuni segni clinici meglio identificabili, lascia riconoscere una sua fisionomia con altri sintomi, al di là di quelli respiratori che l’hanno fatta inquadrare tra le SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria acuta grave).

Tra gli altri, anche sintomi cutanei.

Fra i primi a notarli e a segnalarli sono stati in particolare i pediatri, e meglio ancora i dermatologi pediatri: infatti, mentre abbiamo potuto constatare – fortunatamente, e con grande sollievo – che la popolazione infantile sembra essere pressoché risparmiata da questo flagello, sempre più frequenti sono state le segnalazioni di lesioni cutanee localizzate alle estremità proprio nei bambini, nell’arco di questi ultimi tre mesi. L’aspetto delle lesioni ricorda le perniosi,  i comuni geloni, quelli che vedevamo più spesso in passato, e che sono di solito correlati al clima freddo e alla scarsa protezione con indumenti adatti: ma quest’anno abbiamo avuto un inverno poco rigido, in media, e certamente i nostri bambini hanno a disposizione indumenti adatti ai climi anche più inclementi. Si è trattato, in genere, di bambini asintomatici per CoViD-19.  I geloni colpiscono prevalentemente le estremità, compaiono come papule rosse, o addirittura con bolle emorragiche, dolenti, con bruciore-prurito: sono correlati a una forma di vasculite, la lesione si affaccia sull’epidermide ma si realizza a livello dei capillari, si tratta essenzialmente di una patologia vascolare.

Geloni               IMG_20200424_0004 (3)

Anche in alcuni adulti con CoViD-19  conclamata sono comparsi quadri dermatologici sia a tipo di geloni che diversamente variegati, dalle orticarie alle eruzioni vescicolari diffuse.

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E siccome ci sono recenti evidenze che nella CoViD-19 il danno può essere anche e soprattutto vascolare, con progressive microtrombosi che, nella peggiore evoluzione, arrivano progressivamente a bloccare la funzionalità di cuore e polmoni, ecco quindi che i segnali di tipo vasculitico sulla pelle potrebbero essere un sintomo che ci aiuta nella diagnosi precoce e quindi a interventi terapeutici subito mirati.

 

 

CRONISTORIA DI UNA MALATTIA NUOVA

Alla fine dell’anno 2019,  la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei, notificava all’Organizzazione Mondiale della Sanità l’insorgenza di alcuni casi di polmonite

 

Wuhan Municipal Health Commission

武汉市卫健委关于当前我市肺炎疫情的情况通报

发布机构: 武汉市卫生健康委员会  | 发布时间: 2019-12-31 13:38:05  |  点击数: 527235 |  字号: 大 中 小…

“… sono stati segnalati almeno 41 casi confermati e una persona, già con gravi condizioni patologiche di base, è deceduta.

Le prove sono altamente suggestive che l’epidemia sia collegata a un mercato del pesce, di cui è stata ordinata la chiusura dal 1 ° gennaio 2020. Le persone infette avevano infatti lavorato lì, o erano clienti abituali.

I pazienti hanno spesso riferito febbre e alcuni hanno avuto difficoltà a respirare. Nelle radiografie del torace, gli infiltrati polmonari erano presenti in entrambi i polmoni

Al momento, l‘OMS non sta raccomandando restrizioni sui viaggi …”

 

Era il 31 dicembre, si chiudeva l’anno 2019, e si apriva una pagina di storia difficile e nuova per tutto il pianeta

Responsabile dell’epidemia era un nuovo Corona Virus,  che veniva isolato dalle autorità sanitarie cinesi il 7 gennaio 2020, dopo numerosi test di laboratorio su tutti i casi sospetti, identificati attraverso la ricerca attiva e la revisione retrospettiva.

Esclusi altri patogeni respiratori come influenza, influenza aviaria, adenovirus, sindrome da coronavirus acuta grave (SARS-CoV), sindrome da coronavirus del Medio Oriente (MERS-CoV), il nuovo Corona Virus veniva denominato SARS-CoV-2,  con il numero 2 per distinguerlo dal responsabile della già nota SARS, epidemia del 2002 – 2003.

La malattia veniva ufficialmente indicata come CoViD-19 (Corona Virus Disease 2019), malattia da Corona Virus del 2019.

Sicuramente è iniziata come zoonosi, cioè come patologia trasmessa dall’animale all’uomo: il virus ha compiuto “un salto di specie”, si è ambientato benissimo nei nuovi ospiti, e ha continuato il suo viaggio negli umani: dopo un sommesso esordio, non distinguibile inizialmente da altre forme di influenza, avrebbe poi dimostrato rapidamente un’alta contagiosità e una aggressiva capacità lesiva multiorgano, con esito spesso mortale.

Dopo i primi, iniziali dubbi sulle modalità di contagio (solo da animale a uomo?), la trasmissione da persona a persona veniva confermata il 20 gennaio 2020 a Guangdong, in Cina, da Zhong Nanshan, capo del gruppo della commissione sanitaria che indagava sulla pandemia e accertava che il contagio avviene attraverso le mucose di occhi, naso, bocca, da malato a sano.

Ritrovarono così  nuova fama le ben note “goccioline di Flügge”, già descritte più di un secolo fa dal Professor  Carl Georg Friedrich Wilhelm Flügge,

Carl_Flügge_c1906titolare della cattedra di Igiene all’Università di Berlino dal 1909 al 1923, che aveva effettuato ricerche sulla diffusione dei microrganismi della cavità orale tramite tosse e sternuto – ma anche con il semplice parlarsi di fronte – ed aveva scoperto che le microgocce di saliva,  rimanendo sospese nell’aria, formano una sorta di aerosol capace di veicolare agenti infettivi di numerose malattie. Aveva quindi dato una notevole spinta anche all’adozione delle mascherine igieniche nelle operazioni di chirurgia.

 

Adesso però, con la prevalenza della terminologia inglese, le “goccioline di Flügge” si chiamano droplets. Anche in italiano.

La malattia da SARS-CoV-2 si manifesta con la sintomatologia tipica della comune influenza: malessere generale, febbre, mal di gola… e poi però, nell’arco di una-due settimane, invece di migliorare può complicarsi con difficoltà respiratoria, talvolta anche alterazione della voce, perdita dell’olfatto e del gusto.

La tosse diventa assillante, irriducibile. I pazienti sono prostrati soprattutto dalla mancanza di fiato, non respirano, l’oppressione toracica diventa invalidante, angosciante. La fame d’aria opprime e dà un senso di morte imminente, e spaventa chi ne soffre e chi vi assiste. Si deve somministrare Ossigeno, diventa necessaria la respirazione assistita, i pazienti vanno in rianimazione, in ventilazione forzata…  molti non ne usciranno più.

 

L’intervento dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità

Abbiamo visto come l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia avuto qualche incertezza iniziale, nel prendere atto della nuova malattia.

Nel mese di gennaio 2020 c’era stata la tendenza a soprassedere sul riconoscimento di una potenziale emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, e si dovette arrivare al 30 gennaio del 2020 perché il Direttore Generale dell’OMS dichiarasse pubblicamente, richiamandosi al Regolamento Sanitario Internazionale del 2005, l’ufficialità della pandemia da nuovo Corona Virus: tutti i paesi del mondo hanno dovuto allora prendere atto della circolazione – di fatto – del SARS CoV-2.

Il 31 gennaio 2020 il Governo Italiano ha quindi dichiarato lo Stato di emergenza per sei mesi, stanziato i primi fondi e nominato un Commissario straordinario per l’emergenza stessa.

E si sarebbe poi visto che proprio l’Italia sarebbe stato uno dei paesi europei più precocemente e più pesantemente colpito dal diffondersi della malattia.

 

Il Regolamento Sanitario Internazionale (RSI) era stato stilato nel 2005, proprio per poter gestire gli eventuali casi di infezione o di contaminazione a rischio di diffusione internazionale, garantendo la sicurezza contro tale diffusione, con la minima interferenza possibile sul commercio e sui movimenti internazionali.

Istituito dopo l’epidemia di SARS del 2002-2003, l’Ente  ha riconosciuto da allora  sei emergenze di sanità pubblica di rilevanza  internazionale:

  1.  2009 pandemia influenzale da virus H1N1
  2.  2014 riemergenza del Polio Virus
  3.  2014 epidemia da virus Ebola in Africa Occidentale
  4.  2018 epidemia da virus Zika in America Latina
  5.  2019 epidemia da virus Ebola nella Repubblica Democratica del Congo
  6.  2020 epidemia da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) in Cina

 

Tutte emergenze sanitarie a patogenesi virale!

Ma che cos’è, un virus? Il nome deriva dal latino, significa semplicemente veleno.

Un nome semplice, asciutto, e soltanto singolare: anche se alcuni Autori, soprattutto anglosassoni, ne usano il plurale “vira”, oppure, decisamente all’ inglese, “viruses”

(E anche quelle malefiche procedure informatiche  che inquinano e fanno saltare i programmi nei computer si sono guadagnate l’appellativo di “virus” e addirittura – forse quando sono molteplici?… – il plurale “virii”).

 

I virus sono tutti parassiti endocellulari obbligati, cioè possono vivere e replicarsi solo dentro una cellula.

Possono attaccare tutte le specie viventi:   batteri, funghi, piante e animali.

Il termine è stato introdotto in medicina verso la fine del XIX secolo per indicare dei microrganismi patogeni più piccoli dei batteri, definiti “virus filtrabili” per la loro capacità di passare attraverso i filtri di ceramica (le candele di caolino).

Le dimensioni di una particella virale si misurano in nanometri (nm).

(Credo che per molti di noi sia piuttosto difficile immaginare entità di misura inferiori a 1 millimetro. Ebbene, un nanometro è 1 milionesimo di millimetro.)

I virus spaziano da 20 nm  a 400 nm.

Il nostro tristemente attuale SARS-CoV-2  ha un diametro di circa 50 – 200 nanometri. Il suo genoma è costituito da una singola elica di Acido RiboNucleico (RNA).

Considerare le dimensioni dei virus può aiutare alla comprensione dell’iniziale diatriba sull’utilità o meno delle mascherine, che ha contrassegnato l’esordio della pandemia e le relative manovre di tutela nel nostro Paese. Infatti, da un punto di vista scientifico, a rigor di logica verrebbe da affermare che una mascherina chirurgica non serve proprio a nulla: si tratta di virus filtrabili, passano!

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Poi però si capisce che le mascherine sono utili perché disturbano e interrompono il flusso delle famose “goccioline di Flügge” o droplets che dir si voglia, fermano lo scorrimento di aerosol inquinante in uscita da un contagiato: la carica virale, quando presente, si abbatte, perde la corsa, degrada e non contagia altri individui.  Il che, allo stato attuale delle conoscenze, è già una discreta arma di difesa.

Trattandosi di una malattia nuova, ma con precedenti analoghi nell’ambito delle epidemie influenzali, le principali misure di controllo sono basate sull’interruzione della catena di contagio, quindi distanziamento sociale, isolamento (quarantena) dei casi accertati e sospetti, adozione di mezzi di protezione individuale.

 

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Mezzi di protezione individuale per gli addetti ai lavori: un medico ai tempi della peste, e il personale sanitario ai tempi del Corona Virus

 

Dopo i primi provvedimenti e tutte le incertezze iniziali, tra superficiale indifferenza, fatalismo, negazionismo e speranze…  nel mese di febbraio 2020 ci si rende conto – mi riferisco in particolare all’Italia – che l’epidemia avanza e quindi, con il Decreto Legge 23/02/2020 n. 6, si sanciscono le

    Misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19

I vari articoli danno indicazioni sui comportamenti individuali da adottare (osservare una scrupolosa igiene, lavandosi spesso le mani e disinfettando gli ambienti, mantenere la distanza di almeno un metro e mezzo fra persone), ed elencano le misure di polizia sanitaria che riguardano la chiusura dei luoghi pubblici, dalle scuole ai teatri agli stadi e comunque le manifestazioni di convegno, vietano gli spostamenti non indispensabili, e sanciscono  “la misura della quarantena con  sorveglianza attiva agli individui che  hanno  avuto  contatti  stretti  con  casi confermati di malattia infettiva diffusiva”.

La quarantena è una procedura di antica fama: il nome è veneziano, deriva da quarantina (di giorni), non perché i 40 giorni di isolamento fossero sempre rigidamente osservati (potevano essere anche due settimane, o poco più) ma perché fin dall’antichità il numero quaranta esprimeva un potere magico di astinenza e di garanzia della risoluzione dei problemi. E veneziano è stato anche il provvedimento di stabilire un luogo di isolamento, che veniva imposto agli equipaggi delle navi come misura di prevenzione contro le malattie che imperversavano nel XIV secolo, fra cui la peste:

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a  Venezia fu fondato  il primo lazzaretto, nel 1403, sulla piccola isola di Santa Maria di Nazareth, contigua alla città, che già dal secolo precedente – abitata allora dai Padri Eremitani – dava approdo e ricovero ai pellegrini che andavano e tornavano dalla Terra Santa

Sembra che il termine lazzaretto derivi proprio dalla chiesa di Santa Maria di Nazareth, da cui  Nazzaretto e infine Lazzaretto,  con riferimento al nome del patrono degli appestati, San Lazzaro.  Nel corso delle epidemie di peste, tristemente famose e ciclicamente ricorrenti, le popolazioni di allora venivano letteralmente decimate. Si era compreso che una possibile difesa era appunto quella di prevenirne la diffusione, con l’isolamento dei sospetti e, a maggior ragione, dei contagiati, ed era anche incoraggiata, dalle autorità sanitarie di allora, la pratica della denuncia anonima, per trovare quelli che, già colpiti dal morbo, si nascondevano in casa proprio per non finire al Lazzaretto

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Venezia, Fondamenta delle Zattere, ai Gesuati: l’antica “bocca” per le denunce di contagio nel Sestiere di Dorsoduro

Dalle antiche cronache, in realtà pare che la prima idea di lazzaretto sia stata realizzata già dal 1377 a Ragusa, l’attuale Dubrovnik. La Serenissima seguirà trent’anni dopo.

260px-Platz_in_Dubrovnik           Il Palazzo del Rettore, sede della massima carica dell’antica Repubblica di Ragusa, repubblica marinara esistita dal X secolo al 1808. Il suo territorio fa oggi parte della Croazia e in minima parte del Montenegro  e della Bosnia ed Erzegovina

 

Tornando ai tempi nostri e alla epidemia di Covid-19 in Italia, l’8 marzo 2020 veniva emanato un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con

Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19

 

In pratica, abbiamo dovuto richiuderci in casa, e restare il più possibile isolati. Cambiare le nostre abitudini. Rinunciare a ogni idea di socialità, di incontri, di uscite in libertà.

I nostri più antichi progenitori uscendo dalle caverne potevano incontrare un dinosauro, e morirne…  Per noi oggi il dinosauro è il contatto con i nostri simili, il rischio è lì. E se non ci ammaliamo e non ne moriamo, possiamo però a nostra volta diventare veicolo di contagio e trasmettere la malattia ad altri. Perciò andiamo in pubblico solo bardati con mascherina chirurgica e guanti!

Non è certo rassicurante e incoraggiante, mantenere equilibrio e serenità richiede uno sforzo notevole. Ma dovremo continuare a reggere questo sforzo, impareremo a convivere anche con questo nuovo nemico, che sarà sempre meno nuovo, e che conosceremo sempre meglio. Superati i primi momenti di incertezza e disorientamento, abbiamo già terapie che funzionano, e c’è un gran fervore di ricerca, in tutto il mondo, con fior di scienziati che hanno raccolto la sfida e lavorano con metodo, tenacia, capacità di rendimento.

Ne usciremo. Come sempre.

E  ci sarà sempre  qualcuno che potrà raccontare ai suoi figli, o ai nipoti:

“Eh si, mi ricordo, pensa che abbiamo avuto una pandemia virale che arrivava dalla Cina, e nessuno sapeva come curarla, e ci son stati dei morti, e abbiamo avuto paura… ma poi è finita. E siamo qua”.

 

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Treviso, Le Cupole del Duomo

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LA CHIOMA DI BERENICE ovvero la bellezza dei capelli

Chi sa osservare il cielo stellato, può riconoscere, fra le costellazioni, una “chioma” di stelle di quarta e quinta magnitudine, detta appunto Chioma di Berenice, nota già agli antichi greci.

(Straordinaria la fantasia degli antichi astronomi, capace di correlare ogni disegno stellare a una figura, ad un’immagine reale o mitologica…)

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Le Chioma di Berenice, a sinistra di Boote, nell’illustrazione di Jan Heweliusz , astronomo polacco (1611 – 1687) con nome latinizzato in Johannes Hevelius

 

Berenice, principessa di Cirene, nel 246 d.C. andò sposa a Tolomeo III Evergete re d’Egitto ma, pochi mesi dopo le nozze, lo sposo dovette partire per la guerra:

in ansia per la sorte dell’amato, Berenice fece voto ad Afrodite di donarle i suoi bellissimi capelli se egli fosse tornato sano e salvo. Così accadde, lo sposo tornò sano e salvo, e Berenice riconoscente mantenne il suo voto, tagliò la splendida chioma e la depositò sull’altare della dea…

Ma nella notte la chioma sparì:

così prezioso quel dono, e così gradito agli dei, che subito venne assunto in cielo e diventò una nuova costellazione, Coma Berenices.

E ancora oggi noi possiamo ammirarla sulla volta celeste, dalle parti dell’Orsa Maggiore, non lontana dal Leone: è una delle 88 costellazioni moderne.

 

I CAPELLI

Sono, per definizione, annessi cutanei, con i peli e le unghie. E, come tutto ciò che appare sulla nostra superficie, il loro aspetto ha un forte impatto,  correlato all’estetica, alle mode e alle variazioni dei tempi e dei costumi.

La leggenda sulla Chioma di Berenice sopra riportata vuole infatti fare riferimento all’estrema importanza che gli umani, da sempre, attribuiscono agli annessi piliferi, e in particolare alla chioma femminile, vissuta come elemento di attrazione da esibire, ostentare, proporre come richiamo o, viceversa, nascondere al mondo estraneo (vedi regole islamiche) per riservarne la visione solo agli intimi.

Ma importanti i capelli anche al maschile, simbolo di forza (ricordiamo il giudice biblico Sansone) e di giovanile prestanza: e del resto, come affermava l’etologo britannico  Desmond Morris nel suo celebre testo “La scimmia nuda” (1968),

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la prima caratteristica distintiva degli umani è stata la presenza della capigliatura.

I capelli sono stati – e sono – ampiamente studiati nella loro anatomia, istologia e fisiopatologia, e si conoscono sempre meglio le loro caratteristiche strutturali.

Sono costituiti principalmente da una proteina solida, la cheratina, composta dagli aminoacidi lisina e cistina, e contengono acqua, lipidi, oligoelementi nonché un ‘altra proteina solida, la melanina, responsabile del colore.

Si formano già nel quarto mese di vita fetale, sotto forma di lanugine.

La quantità di follicoli presenti alla nascita è geneticamente predeterminata. Il numero dei capelli è mediamente intorno a 100.000

I capelli hanno una lunghezza variabile, che raramente raggiunge il metro; crescono circa 1 cm al mese e, come le unghie e la barba, continuano a crescere per tutta la vita.

Ogni follicolo è sottoposto a 10-30 cicli riproduttivi nella sua vita. Il ciclo è costituito dalla successione di tre fasi (vita, morte, caduta)

  • Anagen
  • Catagen
  • Telogen

L’anagen dura 2-8 anni, il catagen dura 4-6 settimane, e il telogen 2-3 mesi.

Negli umani non esiste sincronizzazione delle varie fasi, per cui si rileva una perdita continua insieme a un continuo rinnovamento: la caduta fisiologica  giornaliera dei capelli si valuta intorno ai 30 – 100 elementi.

 

I tentativi di controllare vita, crescita e… morte dei capelli stanno sempre più assumendo i contorni di speranze realizzabili.

Si sono concretizzate molte nuove terapie, e soprattutto in questi ultimi anni si è visto che, accanto a un proliferare di rimedi fasulli e di proposte ciarlatane anti-calvizie, qualcosa di serio, e di scientificamente provato, esiste: certo, il limite di queste terapie è che il risultato è strettamente farmaco-dipendente.

I capelli sono capaci di ricrescere (si, anche quelli maschili, quelli che si miniaturizzano e… scompaiono, a causa dell’alopecia androgenetica!) ma il trattamento – al di fuori del ristretto settore chirurgico, con l’evento unico dell’autotrapianto – è inevitabilmente continuo. Il risultato è legato alla cura stessa: la sospendi, e i capelli tornano alle loro condizioni basali, non imparano a sopravvivere senza il sostegno artificialmente indotto.

Come talvolta accade nella storia della medicina, alcuni rimedi efficaci per i problemi dei capelli sono stati identificati occasionalmente: negli anni ’80 del secolo scorso, ad esempio, si stava usando un farmaco anti-ipertensivo (Loniten) e si osservò che un effetto secondario non previsto era una gran crescita di peli e di capelli. Si pensò allora di sfruttare questo effetto secondario formulando un prodotto per uso esterno, una soluzione di minoxidil  al 2% da applicare due volte al dì, in piccola quantità (1 ml) direttamente sul cuoio capelluto, per contrastare l’alopecia androgenetica, soprattutto maschile.

Il minoxidil è ancora molto utilizzato, anche nella concentrazione al 5%, è efficace e ben tollerato, anche se in qualche caso può dare sensibilizzazione cutanea e determinare una risposta allergica (e se compaiono irritazione e  prurito, inevitabilmente si arriva alla sospensione del farmaco… ).

Con la finasteride, il minoxidil è attualmente l’unico farmaco approvato dalla FDA * per la cura dell’alopecia androgenetica.

La finasteride inibisce l’enzima responsabile della conversione del testosterone in diidrotestosterone (DHT), ed era stata introdotta negli Stati Uniti con il nome di Proscar (finasteride in compresse da 5 mg) nel 1992, per il trattamento dell’ ipertrofia prostatica;

il DHT è anche il maggior responsabile dell’atrofia del follicolo pilifero nei capelli degli uomini: bloccare il DHT significa quindi bloccare il processo di caduta dei capelli, e nel 1997 veniva registrato il Propecia  (Finasteride in compresse da 1 mg) per il trattamento dell’alopecia androgenetica maschile.

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* La FDA, Food and Drug Administration (Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali) è l’Ente governativo statunitense per la regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici

 

 

QUALITÀ DEI CAPELLI

Forma, spessore, densità, colore

Lisci o riccioluti, più o meno grossi oppure sottili e setosi, appesi al cuoio capelluto come spaghetti o fluenti in morbida massa compatta… tutto conta nell’estetica dei capelli, ma consideriamo ora anche  quel dettaglio fondamentale che è il colore: abbiamo già visto che è legato alla presenza della melanina, un pigmento la cui formazione appare già nell’embrione, e  che può essere la eumelanina, scura, presente nei capelli neri

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e la feomelanina, chiara, dei capelli rossi o biondi

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Miscelandosi, le due diverse melanine producono almeno 14 sfumature di colore.

Ma poi, ineluttabilmente, con l’avanzare dell’età, il colore scompare: l’incanutimento è un processo fisiologico, che mediamente ha inizio nel quarto decennio di vita, con molte variabili. E, anche se si conoscono casi di incanutimento in età giovanile, i capelli bianchi sono correlati  all’idea della vecchiaia (e della fine! come sospirava il Leopardi:  “… questo morir, questo supremo scolorar del sembiante”)

Evento che non risparmia nessuno, prima o poi, nemmeno i diavoli nell’Inferno dantesco:  “un vecchio, bianco per antico pelo…”

Un vecchio, bianco per antico pelo, Gridando «Guai a voi, anime prave.

 

La produzione di melanina è legata alle fasi di crescita del capello: è massima durante la crescita (anagen), diminuisce fino alla sospensione nei passaggi di catagen e telogen, e poi riparte nella nuova fase anagen.

Ma perché i capelli imbiancano?

Varie ipotesi e teorie si sono succedute negli anni, non tutto è completamente chiaro, ma oggi sappiamo che l’evento determinante è la perdita di melanociti (le cellule della melanina) nel follicolo pilifero.

L’incanutimento avviene nell’arco di circa 1 cm di crescita, quindi i melanociti spariscono da quella unità pilare nel volgere di poche settimane.

E’ stato inoltre dimostrato da un gruppo di ricercatori che i follicoli piliferi possono produrre piccole quantità di perossido di idrogeno (si, l’acqua ossigenata!) che si fissa sul fusto dei capelli, portando a una  loro graduale perdita di colore.

 

E comunque, per quanto sappiamo, lungo tutta la storia dell’umanità non si è mai rinunciato a cambiare il colore dei capelli, soprattutto di quelli bianchi, e soprattutto da parte delle donne: anche a costo di usare sostanze tossiche o lesive, o impiastri insopportabili.

Nel nostro tempo, la colorazione dei capelli ha certamente raggiunto grandi risultati sia sull’effetto cosmetico, per l’aspetto più morbido, naturale, lucente; sia sul versante del rischio allergo-tossico, che è stato progressivamente ridotto.

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E’ diventata una prassi facilmente realizzabile e molto diffusa, anche se il mantenimento del colore artificiale comporta pur sempre un impegno di tempo e di denaro: soprattutto può diventare assillante la sorveglianza della ricrescita dei capelli bianchi (così antiestetico, quel bordo chiaro che si affaccia ineluttabilmente sul cuoio capelluto, sgradita aureola rivelatrice… )

 

Ecco allora che una recente novità sul tema della pigmentazione dei capelli può acquistare un significato speciale, ottimistico, rassicurante: è stata infatti identificata una sostanza capace di interagire con questo complesso meccanismo, potenziando la ripresa del colore naturale “da dentro”, non come colorazione esterna. Si tratta di una cheratina idrolizzata, ricavata dalla lana di pecora e opportunamente elaborata, classificata come  integratore alimentare: si assume per bocca, e viene quindi assorbita per aggiungersi alle sostanze nutritizie che normalmente ci aiutano a mantenere la funzionalità delle nostre strutture.

E ci sono inoltre anche recenti proposte di tipo cosmetico sulla possibilità di ottenere un ritorno di colore agendo direttamente sui bulbi piliferi, alla radice dei capelli, con spray che contengono sostanze prive di pigmenti ma formulate per contrastare l’incanutimento…

Forse non sarà possibile riportare in questo modo la chioma argentea della nonna all’antico splendore corvino o ai riccioli d’oro della sua giovinezza, ma certamente si può prendere atto di  questa opportunità  e scoprire cosa può darci, pur con tutti i suoi limiti.

Siamo d’accordo, non è la scoperta di un farmaco salvavita: eppure la si può vedere egualmente come una conquista, perché testimonia un po’ quella che è la tendenza tipica di molti esseri umani, quell’andar contro le cose che sembrano immutabili e non modificabili. Il progresso vive di rendita sui problemi già risolti ma cresce affrontando l’impossibile e dimostrando che tale non era.

Quindi non andremo a riprenderci la chioma di Berenice, la lasceremo là, fra le altre stelle, in tutto il suo remoto fulgore, per sempre:

ma abbiamo scoperto di avere qualche  possibilità in più, per la vita e la bellezza dei nostri capelli, qui e ora.

 

 

Cute quotidiana

QUALCHE CONSIGLIO DI MANUTENZIONE

Quando la pelle sta bene, si gestisce praticamente da sola e non ha bisogno di nulla: per tenerla in ordine bastano la semplice detersione quotidiana e un minimo di accuratezza, sia pure con tutte le varianti, però, che ognuno di noi ritiene utili – o addirittura indispensabili – per abbellirla, ornarla, dipingerla.

Fin dalla preistoria gli umani hanno infatti applicato sostanze sulla cute, avendo ben presto compreso che gli oli e i grassi potevano ammorbidirla, e che molti vegetali e minerali potevano essere usati per colorarla e decorarla. Non sempre la sperimentazione è andata bene, certamente qualcuno ha pagato letteralmente sulla propria pelle qualche errore di valutazione, e questo è servito agli altri per evitarlo.   E in fondo, nonostante tutte le variabili legate al trascorrere dei millenni e ai cambiamenti delle abitudini di vita, siamo ancora inclini a queste scelte, e spesso privilegiamo l’uso delle sostanze naturali rispetto a quelle più sofisticate che le moderne tecnologie ci offrono. Entrambe le tipologie possono funzionare, soprattutto se, e quando, come detto sopra, la pelle sta bene.

I famaci galenici, o preparazioni galeniche, quelli cioè che il farmacista prepara direttamente, devono il loro  nome a Galeno, medico dell’antica Grecia, nato a Pergamo nel 129 d.C. e morto a Roma intorno al 200, e sono ancora presenti nel nostro armamentario terapeutico. Certamente abbiamo lasciato perdere le fumigazioni di calce per certi pruriti, e l’unguento mercuriale usato fin dal Medioevo per le pediculosi e per la lebbra e promosso poi, dal 1500, a medicamento di elezione per la terapia della sifilide;

e credo che a nessuno più verrebbe in mente, per amor di cure naturali, di ricorrere all’“unguento della madre superiora”, a base di sugna di porco, grasso di montone, cera gialla, mercurio e pece nera, considerato insuperabile, nel 1600, per ristrutturare una cute secca e squamosa.

Potrebbe essere invece considerato con fiducia e simpatia il “cerato di  Galeno” a base di cera d’api, olio di mandorle, acqua di rose, e in effetti è tutt’ora usato, se pure con aggiunte e varianti migliorative, come base di molte “cold creams” .

vasi di farmacia

Anche l’erboristeria, il curarsi “con le erbe” sia dentro che fuori, intus et in cute,  ha sempre trovato molti sostenitori, e forse ai tempi nostri è più attuale che mai, è una procedura che gode di grande stima e fiducia. Si ritiene che un prodotto naturale sia più affine a noi, e possa solo giovare alla nostra salute

ma… attenzione! mai sentito parlare di allergia ai pollini? E sì che i pollini sono proprio naturali, e vegetali!

Veleni universalmente noti come il curaro e la stricnina sono di origine vegetale;

Strychnos_nux-vomica_-_Köhler–s_Medizinal-Pflanzen-266 Strychnos nux vomica (noce vomica)

la marijuana si estrae da una pianta, e così pure la cocaina…

Erythroxylum_coca_-_Köhler–s_Medizinal-Pflanzen-204  Erythroxilum coca

Ma, con le dovute attenzioni, possiamo ancora curarci anche con erbe e fiori

Per esempio, se avete delle verruche ribelli alle terapie tradizionali, ricorrete pure con fiducia alle toccature con il latice di Celidonia: funziona! Lentamente, e solo su verruche non troppo spesse e coriacee, ma funziona! Non provoca danni, se non una modesta alterazione estetica transitoria: infatti vi colorerà la cute di giallo, nei punti di applicazione, ma non è una colorazione permanente, si attenua e sparisce insieme alle verruche, senza lasciare cicatrici.

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Chelidonium majus (Celidonia)

E con quest’ultima nota siamo  già passati a considerare la manutenzione della pelle non più soltanto “per bellezza”, (quando la pelle sta bene, come detto all’inizio) ma anche se si manifestano problemi:    dalla fisiologia alla patologia, quindi,  ed è qui che dobbiamo prestare maggior attenzione.

Quando, per qualche motivo, la cute perde la sua integrità, e si altera, si ammala, e manifesta la sua sofferenza con segnali oggettivi come l’arrossamento, il gonfiore o la comparsa di vescicole, pustole, ulcerazioni; e con segnali soggettivi come il prurito, il bruciore, il dolore… è allora che la scelta delle sostanze da applicare su questo terreno infido deve essere più che mai prudente e consapevole.

E possono essere validi sia i preparati galenici che i nuovi farmaci di sintesi per uso cutaneo, purché se ne conoscano uso e funzioni

Sembra una battuta, ma non lo è: infatti, una buona parte delle patologie cutanee è coltivata, peggiorata o cronicizzata dall’uso di sostanze non adatte.

Senza ricorrere a un trattato di terapia dermatologica, incominciamo semplicemente a ricordare le nozioni di base che ci devono guidare nella scelta di un prodotto da applicare sulla cute in generale e su quella alterata in particolare:

Una pomata ? Una crema? Una lozione?…

   Pomata o unguento

Siamo tutti molto affezionati al termine “pomata”, ma è meglio ricordare subito che la “pomata” non esiste più. Il nome è passato indenne da un secolo all’altro, ma non si usano più i pomi come base delle preparazioni grasse, per renderle più morbide, spalmabili, gradevoli; il nome corretto, usato anche dalle farmacopee straniere, è unguento.

Ed ecco un primo, semplice consiglio di ordinaria manutenzione cutanea:

un unguento sarà utile su cute sana e secca, o su cute alterata da lesioni secche e ipercheratosiche

se la pelle si è infiammata, e appare addirittura essudante, un unguento la blocca, la occlude, e quindi non va bene, peggiora il disturbo

Crema

Nome comune crema, ma è corretto parlare di emulsione, cioè un sistema di sostanze non solubili l’una nell’altra (tipicamente acqua e olio): un’emulsione molto fluida è detta latte, e quando è densa si chiama crema.

Le emulsioni acqua in olio A/O sono note in cosmesi come “cold creams” , e la più antica è certamente quella nominata prima: il “ceratum humidum Galeni” (cera bianca g 12, olio di mandorle g 50,  acqua di rose g 37,5)

Sono usate come creme indifferenti o come veicolo di principi attivi su lesioni cutanee anche essudanti, e in cosmetologia sono le creme nutrienti o da notte.

Le emulsioni olio in acqua O/A sono evanescenti, “asciutte”, e costituiscono le cosiddette “creme da giorno”; da sole, possono essere usate come idratanti e protettive, ma possono fungere da veicolo per principi attivi contro funghi e batteri.

   Soluzioni, lozioni, tinture (medicamenti liquidi)

Hanno una azione di tipo superficiale (rinfrescante, lenitiva, antipruriginosa, antiessudante…).     Le soluzioni, in particolare, si usano per toccature, spugnature, impacchi, ed è proprio a proposito degli impacchi che mi è venuta l’idea di proporre queste note di manutenzione, perché ho riscontrato che la maggior parte delle persone non sa cosa significa un impacco.

E’ stata una nozione universalmente nota, quasi casalinga, per generazioni. Faceva parte delle conoscenze di base, fra le norme del pronto soccorso familiare, naturalmente affidato alle donne di casa, e tutte sapevano come e quando: ai giorni nostri, invece, quando lo propongo, vedo che molti pazienti restano disorientati

   gli impacchi sono indicati nelle dermatiti eritemato-edematose, cioè su cute rossa, infiammata, a volte anche vescicolosa: questo disturbo può verificarsi in modo acuto e improvviso – particolarmente nel clima caldo-umido –   e spesso proprio nelle zone più delicate, a livello delle pieghe cutanee (palpebre, collo, ascelle, inguine);

per ridurre l’infiammazione cutanea, si applicano sulla superficie malata le compresse di garze, imbevute – ma non grondanti! – della soluzione prescelta, con effetto rinfrescante e decongestionante.

La più semplice e usata è la soluzione fisiologica (soluzione acquosa di cloruro di sodio allo 0,9%) ma è molto noto anche lacido borico, in soluzione acquosa al 3%: non irritante, ha una blanda azione antisettica e antimicotica, è adatto anche a zone delicate come le palpebre.

E soprattutto, se trattate una lesione sconosciuta con un impacco del tipo ora descritto, male che vada non otterrete un gran risultato, ma non provocherete alterazioni fuorvianti, resterà possibile una diagnosi clinica da parte di chi la vedrà in un secondo tempo.

Quindi, per la “manutenzione” della pelle, in salute e in malattia, nel bene e nel male… sempre le stesse regole: PRIMO NON NUOCERE, muoversi con prudenza e con rispetto, conoscere e applicare  le moderne risorse delle tecniche farmaceutiche più avanzate, ma non dimenticare – quando servono – le  vecchie strategie della nonna.

 

Nei e allarme melanoma

E’ un problema attuale, molto sentito: un neo, piccola macchia scura della pelle, può presentare evoluzione maligna e dare origine a uno dei tumori più invasivi e mortali che conosciamo, il melanoma.

I nei (o nevi) melanocitari possono essere presenti in qualunque parte della nostra superficie, anche nell’occhio, o sotto le unghie, e sulle mucose del cavo orale e dei genitali;

possono essere congeniti, cioè presenti fin dalla nascita, o comparire più tardi, per tutta la vita, anche se in realtà nell’anziano sono le cheratosi ad affacciarsi più o meno numerose, tanto antiestetiche quanto innocenti.

I nei sono formazioni pigmentarie che tutti conoscono, è estremamente raro non averne neppure uno, mentre è di frequente riscontro la presenza di numerosi elementi, disseminati senza ordine, e a dimensioni variabili, del diametro da un millimetro a più centimetri.

E non sono certo manifestazioni nuove, per gli esseri umani, però hanno progressivamente perduto la loro aura di innocenza, finiti i tempi in cui venivano gentilmente definiti “nei di bellezza”, e a volte erano artificialmente disegnati, sul volto, come un messaggio di attrazione e richiamo: adesso sono invece diventati motivo di attenzione, spesso di allarme, costituiscono il segnale di un possibile rischio e quindi vanno esaminati, controllati, inquadrati e monitorati…

Certamente i nei molto chiari non inquietano nessuno, le lentiggini e le efelidi non destano preoccupazioni, è il colore nero che deve farsi notare.

E ci sono poi dei nei che presentano variazioni particolari e che non passano inosservati, ad esempio il neo con alone chiaro, una formazione pigmentaria che improvvisamente si circonda di un alone bianco

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E’ il neo con alone, o halo noevus, o leucoderma centrifugo acquisito, o vitiligine perinevica… (quante definizioni, per la stessa patologia! È uno dei sovraccarichi mnemonici più pesanti, da quando si è studenti e via via per sempre, negli anni…) ma forse, a livello internazionale, è ormai universalmente noto come “nevo di Sutton”, dal nome del dermatologo americano Richard Sutton che per primo lo descrisse, nel 1916.

Non nuovo sulla scena, dunque, ma – a proposito dei tanti nomi – sembra che sarebbe corretto chiamarlo neo o nevo di Grünewald, per l’antica descrizione pittorica, risalente ai primi anni del 1500, ad opera appunto del pittore Mathias Grünenwald:  nel suo terrificante “La tentazione di Sant’Antonio”, fra le  creature demoniache che tentano il povero Santo, egli rappresenta infatti un braccio, che si avvolge intorno ad un mantello, e che appare costellato di numerosi nei con alone bianco

Nevi di Grunewald

E comunque, con tutta la sua storia antica, il nevo con alone non è dei più allarmanti, va controllato nel contesto globale della pelle, ma non richiede nessuna terapia. Da ricordare e da segnalare che quell’alone chiaro intorno al neo finirà spesso con l’eliminare il neo stesso, e che si tratta di una zona estremamente delicata nei confronti della luce solare, non ha più melanina, si ustiona facilmente.

Nell’ambito delle varie procedure finalizzate alla prevenzione delle patologie – ed è un concetto sacrosanto, ormai universalmente accettato, che “prevenire è meglio che curare” – è entrata quindi anche la visita dermatologica per il controllo dei nei, e un piccolo strumento che aiuta molto il dermatologo, in questo controllo, è il dermoscopio o dermatoscopio

dermatoscopio

 

   Osservare la pelle – e in particolare i nei –   sotto questa  lente di ingrandimento, direttamente o attraverso un velo sottile di olio, è veramente di grande aiuto diagnostico. Nella maggior parte dei casi, questo procedimento è completo ed esaustivo. Ma se invece si vuole approfondire l’indagine, perché qualche elemento è dubbio o sospetto, si può procedere alla videomicroscopia in epiluminescenza, che è quindi un perfezionamento di esame, un ulteriore accertamento, che si fa in seconda battuta: viene utilizzata una telecamera con ingrandimenti da 20x  fino a 200x, collegata ad un computer, e si può procedere all’osservazione non solo del neo ingrandito, ma anche della sua struttura e organizzazione

Questa osservazione a colori è possibile grazie alla tecnica dell’epiluminescenza, che consente l’eliminazione dei raggi riflessi prodotti dalla luce della telecamera. Si può dire che la videodermatoscopia è più simile ad un’ecografia che non alla semplice osservazione con una lente di ingrandimento.

Il collegamento della telecamera ad un computer consente l’osservazione sul monitor.  Le immagini possono essere archiviate, e poi richiamate a distanza di tempo nel corso di successivi controlli.

Una terminologia praticamente equivalente alla videodermatoscopia, ma che è entrata molto rapidamente nell’uso quotidiano, e viene usata spesso (anche a sproposito…) è la mappatura dei nei.

Una mappa è la rappresentazione grafica di una zona di terreno. Tutti noi abbiamo nei ricordi di infanzia, dai racconti di avventura, una mappa del tesoro; e conosciamo la realtà delle mappe catastali che inquadrano e ingabbiano le proprietà di terreni e fabbricati… Ma una mappa della pelle?

E una mappatura, poi?

In biologia esiste la definizione di mappatura genetica, la rappresentazione schematica dei geni su un cromosoma;

e di qui si è passati alla definizione di mappatura dei nei, quella che si costruisce registrando in computer le immagini dei nei di una persona, sia fotografiche che dermatoscopiche.

Come già detto, le immagini dermatoscopiche si rilevano con una apposita telecamera che si appoggia su un neo per cogliervi dettagli non visibili a occhio nudo, e serve per poter capire se uno o più nei, nel tempo, cambiano aspetto e diventano pericolosi, in modo da asportarli e prevenire quindi la loro degenerazione in melanoma:

è un’indagine che è –  e deve essere – mirata su nei atipici o quantomeno dubbi, non ha senso applicarla genericamente a tappeto, su tutte le persone

E come si fa a capire se un neo è “atipico”?

Guardandolo, osservandolo, in base all’esperienza. Ma abbiamo anche delle linee-guida, abbiamo dei dati generali rilevati da statistiche serie e collaudate, che ci aiutano a capire e a interpretare.

Un sistema noto per interpretare i segnali di allarme è il cosiddetto 

     SISTEMA    A B C D E

  • A = asimmetria della lesione (un neo incomincia a crescere in modo sbilanciato, cambiando forma e profilo)
  • B = bordi irregolari, frastagliati
  • C = colore irregolare, con prevalenza del nero
  • D = dimensioni in aumento, che superano i 5 mm di diametro
  • E = evoluzione: modificazioni in dimensioni, forma e colore, come sopra descritto, in un breve lasso di tempo (6 – 8 mesi)

Questi sono i punti chiave per cogliere la trasformazione maligna, e vanno naturalmente studiati e interpretati caso per caso, ma direi che il più importante, quello da cui si deve iniziare, è proprio l’ultimo: è l’evoluzione di un neo che può darci l’idea che qualcosa sta cambiando, e non in meglio, a maggior ragione se è un neo di recente comparsa, in età adulta, dopo i 40 anni, che in pochi mesi sta cambiando forma, dimensioni e colore

Impariamo quindi a osservarci, a osservare la pelle, nostra e dei nostri cari, con la dovuta attenzione ma senza inutili allarmismi.

Nella mia esperienza professionale, per esempio, mi è capitato spesso di vedere persone accorse a farsi visitare urgentemente, spaventate perché un neo si era rotto e sanguinava: ma se un neo è sporgente, e viene traumatizzato da una grattata o da una cintura o da una cinghia, non deve far scandalo che sanguini… D’accordo, è una ferita su una zona delicata, a volte si infiamma in modo drammatico, ma è pur sempre una lesione che ha avuto una causa naturale ed è tranquillamente curabile. Di solito si tratta di nei che nelle vecchie classificazioni erano indicati come “ nei tuberosi benigni”, e quest’ultimo è proprio un bell’aggettivo rasserenante. Un trauma occasionale non farà diventare maligni quei nei.

Dobbiamo comunque abituarci all’idea di far verificare la situazione dei nostri mosaici cutanei, periodicamente, perché quei nevi melanocitari restino sempre “di bellezza” e, se perdono la retta via dell’ordine architetturale cellulare, possano venir colti sul fatto dall’inizio, ed eliminati.

Il sole sulla pelle

“   Tu sorgi all’orizzonte dal cielo, o vivo Aton…riempiendo ogni terra della tua bellezza. Sei bello e grande… Tu dai agli uomini lingue diverse e caratteri diversi ed il colore della pelle cambia…”

Dall’Inno al Sole del Faraone Akhenaton, 1350 a.C., circa

Un sentimento universale degli umani è l’amore per il sole: non abbiamo neanche bisogno di pensarci, è qualcosa che ci appartiene, è connaturato a noi. Facciamo coincidere la luce del sole con il senso stesso della vita, e ne sentiamo la spinta positiva sia fisicamente che psicologicamente.

Ma ci sono condizioni, anche se non frequentissime, in cui la luce solare diventa un nemico mortale – o quasi –  per la pelle, e provoca delle dermatosi gravi: su base genetica si può verificare l’Albinismo, condizione in cui non c’è pigmento a livello dell’epidermide, dei peli, e dell’occhio (l’iride è trasparente!). E non è  solo un  dettaglio estetico, manca un importante fattore di protezione.

Un’altra condizione estrema è costituita dallo Xeroderma pigmentoso, malattia ereditaria caratterizzata da una sensibilità anormale alle radiazioni ultraviolette: fin dai primi mesi di vita, sulle zone scoperte, e specialmente al volto, si manifestano lesioni cutanee che evolvono in tumori.

E del resto, va ricordato che le radiazioni UV sono nell’elenco delle sostanze riconosciute come cancerogene, possono quindi rappresentare – ufficialmente – un pericolo.

Ma non è di questo che vorrei parlare qui, ora. Lasciamo stare la descrizione scientifica delle radiazioni elettromagnetiche che costituiscono la luce solare, grandi scoperte si sono susseguite e avvicendate per chiarirne gli aspetti e le caratteristiche, ognuno può documentarsi e approfondirle.

E vorrei anche abbandonare l’orientamento allarmistico che può essere emerso dalle mie osservazioni di qualche riga sopra: passiamo semplicemente a considerare l’impatto quotidiano che ognuno di noi ha con il sole, con tutte le variabili legate ai luoghi in cui viviamo, all’avvicendare del giorno e della notte, delle stagioni e dei momenti diversi della nostra vita.  In particolare, è proprio il periodo delle vacanze estive che pone la gran maggioranza delle persone, di ogni età, a confrontarsi con l’esposizione pressoché totale, e il più possibile prolungata, alla luce solare: fatto che in genere viene considerato una conquista, un premio, qualcosa da inseguire e da raggiungere come una meta agognata. E poi da rimpiangere, aspettando il successivo appuntamento.

Ricordo che tanti anni fa una agenzia turistica indisse un concorso a premi per il miglior slogan pubblicitario di promozione di una spiaggia veneta, e lo vinse una ragazza francese, che scrisse: “Vacances en Italie, onze mois de nostalgie” (Vacanze in Italia, undici mesi di nostalgia, che in francese suona meglio, con la rima, e che si riferiva proprio a un mese passato al mare).

Al di là del significato globale della vacanza, positiva perché interrompe ritmi di vita abituale, e coincide con il riposo, e ha il fascino della novità, dell’imprevedibile, degli incontri… una delle situazioni pressoché obbligate è appunto l’esposizione al sole

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sulla spiaggia, ovviamente

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ma anche in montagna

E lo scopo principale dell’esposizione solare è la conquista dell’abbronzatura.

Forse non succede più, come qualche anno fa, che ci si spalmi di vaselina e si usino gli specchi riflettenti per potenziare la luce del sole e assumere un bel colore arrostito, ma certamente una delle mete estetiche più inseguite e agognate è “la tintarella”, il colore della pelle che si moduli dal dorato al nocciola.

Il bianco non si usa più.

Finiti e sempre più lontani i tempi in cui la bellezza femminile era interpretata e proposta come un messaggio di rosea luminosità;

non più valido il cliché, che aveva imperato per secoli, secondo il quale  era bella e desiderabile – almeno nella nostra area occidentale –  soltanto la donna che presentasse un incarnato chiaro, pallido, evanescente. Per intendersi, come nei ritratti di Rosalba Carriera, la pittrice veneziana che aveva studiato una tecnica particolare per la preparazione di pigmenti che rendessero al meglio il colore di una pelle nivea, e che, nella prima metà del 1700, era richiesta come ritrattista presso le più ricche e nobili famiglie, e le corti dei regnanti, da Venezia a Parigi a Roma.

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Ritratto di Caterina Sagredo Barbarigo

La suggestione continuò a imperare per altri due secoli, ma iniziò a sgretolarsi ai primi del ‘900. A creare le prime crepe contribuì sicuramente anche la stilista Coco Chanel, quando suggerì una moda che invitava le donne a liberarsi di ombrellini, velette, calze e ingombranti prendisole, e nel 1923 si mostrò a Parigi con la pelle dorata dal sole dopo una vacanza sulla Costa Azzurra.

Era un messaggio che sapeva di libertà, e venne raccolto. Ci  mise un po’ ad affermarsi, ma intorno agli anni ’50 divenne universale, e l’arrivo del bikini come costume da bagno completò l’opera.

I nuovi canoni estetici coinvolsero naturalmente anche l’universo maschile, e l’uomo – comunque già da sempre apprezzato nella sua versione sportiva con la cute color cuoio – si votò rapidamente ai nuovi dettami, in modo trasversale, in tutte le classi sociali: scomparsa progressivamente l’abbronzatura “da muratore” (quella col segno della canottiera), via libera ad un aspetto omogeneamente pigmentato, e possibilmente tutto l’anno.

Si affacciò sulla scena l’uso – unisex –  delle lampade abbronzanti, e tutto sembrò una conquista: nudi al sole, o sul lettino di un centro estetico, i raggi UV naturali o artificiali garantivano bellezza e fascino.

Ma, come sempre accade nelle umane vicende, niente è così semplice e lineare, e incominciarono a rendersi evidenti i primi allarmi: l’aumento dei tumori della pelle correlati all’esposizione solare assunse, globalmente, un andamento statisticamente significativo, e non è strano che il fenomeno abbia richiesto degli anni per manifestarsi; i danni da radiazioni sono tardivi, hanno tempi di latenza lunghi, e l’irraggiamento solare potenzia i suoi effetti per accumulo.

Si fece strada però soprattutto un’altra evidenza, più subdola e sottile ma inevitabile, e fu la constatazione che tutto lo splendore della pelle soleggiata si pagava poi, progressivamente, con un danno estetico più o meno marcato, soprattutto a livello del volto: si coniò il termine di “fotoinvecchiamento” o photoaging per indicare quelle alterazioni che accompagnano, ma spesso precedono e aggravano, il naturale “cronoinvecchiamento” anagrafico…

Che fare, dunque?

Rinunciare, per prudenza, alla felicità di poter vivere al sole?

Certamente no, non accetteremo di rifugiarci nell’ombra, al buio, o di pagare le vacanze con un pesante tributo di ansie e di paure, ma sarà opportuno prendere qualche precauzione quotidiana.

Le regole di manutenzione della pelle al sole sono semplici, elementari, quasi ovvie:

  • Evitare le ustioni, non ci si deve scottare: e se proprio accade, fare assolutamente in modo che l’episodio resti unico, isolato. Non si va all’aperto a ripetere il trauma, e questo vale soprattutto per i bambini.
  • Proteggere in particolare la pelle del viso e del décolleté, sono le zone più fragili e più suscettibili di macchiarsi, assottigliarsi, segnarsi di rughe precoci. Proteggerla sempre, non solo durante le vacanze: i danni da accumulo all’esposizione ai raggi UV si stabilizzano e si rinforzano, nei mesi e negli anni, proprio perché le zone foto-esposte sono tali per tutta la vita.
  • In estate, al mare o in montagna, non esporsi al sole nelle ore centrali della giornata, e questo a maggior ragione se si soggiorna in zone più vicine ai tropici.
  • Ricordare l’esperienza comune, per averla vissuta o sentita raccontare, di un’ustione solare dopo un soggiorno in spiaggia sotto l’ombrellone: la potenza di irraggiamento viene ampliata dalla superficie riflettente della sabbia e dell’acqua.

Concludendo, quindi, possiamo avere tutto il meglio, dalle vacanze, senza pagare prezzi troppo alti direttamente sulla propria pelle.

Meglio un po’ di crema solare, e un cappello, e possibilmente anche un po’ di movimento sotto il sole, non la rosolatura stazionaria e prolungata: consideriamoci già cotti a puntino, non abbiamo bisogno di brasarci e arrostirci. E i biondo-rossi, quelli che si scottano sempre e non si abbronzano mai, non si sforzino ad oltranza di passare alla categoria dei mori, e indossino con orgoglio la propria “tintarella di luna”, come un ritratto di Rosalba Carriera.

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Il prurito e i suoi misteri

 

In Dermatologia, il prurito è un sintomo importante, corredo quasi obbligatorio della maggior parte delle malattie cutanee.

Qualche volta si manifesta in modo apparentemente autonomo, non in risposta ad alterazioni evidenti sulla pelle, ed è quello che per antica definizione chiamiamo “sine materia”, cioè senza malattia cutanea (quando cerco di spiegarlo al paziente, io lo definisco come un  sintomo “sulla” pelle, e non “della” pelle:  la cute può rispondere cioè come organo bersaglio, e non perché protagonista della malattia).

Le alterazioni cutanee, in questi casi, si verificano soltanto per il grattamento, e sono escoriazioni lineari, graffi, crosticine ematiche… fino a vere e proprie abrasioni.

Le persone che ne soffrono, qualunque ne sia la causa, possono esserne veramente tormentate, e sono spesso incomprese. Quando, da leggero e innocuo impulso  che si  quieta piacevolmente con un passaggio delle dita, il prurito si fa invece progressivamente pervicace, irriducibile, disturba il sonno, e altera anche i rapporti sociali e conviviali (non si può grattarsi davanti ad altri!) allora diventa motivo di sofferenza che altera profondamente la qualità della vita. E le persone che si grattano vengono spesso mal tollerate anche dai loro cari, è difficile che non vengano continuamente esortate a star ferme, a smetterla di toccarsi (come se fosse facile!… )

Ma questo è un vasto e inquietante capitolo, sul quale torneremo, per capirne motivi, percorsi e possibili soluzioni

Adesso consideriamo invece una delle cause più banali, comuni – e direi quasi rassicuranti – di un prurito occasionale e ben motivato: quello da punture di insetto. Ne abbiamo fatto esperienza tutti, sappiamo bene cos’è un pomfo da puntura di zanzara, anche se nel linguaggio comune raramente viene usato il termine pomfo, le persone parlano di bolle  per descrivere l’esito di un incontro ravvicinato con i nostri agguerriti nemici ronzanti. Ma le cose si complicano, e ogni consapevolezza salta, se al posto delle zanzare ci sono altri aggressori: e capita molto spesso che le persone non correlino le loro lesioni pruriginose all’attacco di alcuni insidiosi e pressoché invisibili nemici.

L’obiezione più frequente da parte dei pazienti, infatti, è che non è possibile che siano gli insetti a provocare le loro lesioni, perché non li hanno visti.

Dimenticando che molti animali – e gli insetti in particolare – hanno affinato per milioni di anni una tecnica di sopravvivenza che si avvale soprattutto del mimetismo: confondersi con l’ambiente, passare inosservati, sembrare inanimati è una strategia vincente per non soccombere. E aggiungiamo anche che la maggior parte di noi umani non osserva molto i particolari, e spesso guarda senza vedere.

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Visto subito, il bruchetto equilibrista sul gambo della foglia?

 

E qui, un paio di giorni dopo, ancora più difficile, a ponte sospeso: colore e calibro sono veramente indistinguibili dai gambi dei ciclamini.

 

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Non credo che il bruco di cui sopra possa mai rappresentare un pericolo, per noi: tutt’al più gli avremo sacrificato qualche foglia dei nostri bei fiori, perché il suo ciclo vitale si compia fino a diventare farfalla.

Volevo solo ribadire il concetto che può capitare di non riconoscere, di non “vedere” un possibile corpo estraneo; a maggior ragione questo accade se si tratta di parassiti minuscoli, al limite del visibile, e specialisti nella tecnica del mordi e fuggi, come certi acari.

Quando un distretto cutaneo si copre di puntini rossi, molto pruriginosi e fastidiosi, chi ne è colpito tende a responsabilizzare prima di tutto qualche alimento, o qualche farmaco: ma se abbiamo fatto una gita in campagna, o almeno una passeggiata all’aperto, prendiamo in considerazione anche la possibilità di un incontro ravvicinato con qualche altro ospite del pianeta…

Perché insisto su questo tema?

Perché è veramente frequente il rifiuto di questa diagnosi, mi è capitato più volte di doverne discutere con pazienti che non ammettono un meccanismo di azione così banale, e chiedono spiegazioni, e il nome e la qualifica del nemico, e restano increduli

Gli acari sono spesso di dimensioni veramente ridotte, quasi puntiformi. Hanno il loro bravo nome latino, talvolta divertente come un diminutivo disneyano (Cheyletiella, Trombicula…), a volte altisonante come Dermanyssus gallinae seu avium, Pediculoides ventricosus…

Un’eruzione da punture – o morsi – di insetto può essere veramente fastidiosa, ma è pur sempre un evento occasionale, non rappresenta una malattia, è rapidamente curabile. Nelle nostre zone – mi riferisco a Veneto e dintorni – in genere non c’è comunemente il rischio di incappare in aggressioni pericolose o mortali, durante le escursioni.

escursione sui prati

E d’altra parte, va ricordato che del tutto tutelati non siamo neanche tra le mura domestiche: al di là delle ben note zanzare, compresa la “new entry” zanzara tigre (Aedes albopictus), e di qualche occasionale passaggio di vespe e calabroni, per tornare al capitolo dei nemici poco visibili ricordiamo che ci sono ancora le pulci, e non così rare.

Si, le pulci, questi insetti di 2-4 mm, senza ali, ma di grandi virtù acrobatiche, capaci di spiccare salti incredibili: ci sono ancora, e se possono incontrarci banchettano allegramente su di noi, nella loro varietà che è stata battezzata Pulex irritans o pulci umane. Siamo così comodi, e accessibili, abbiamo cute morbida e sottile, e non siamo rivestiti di squame, peli, setole come tanti altri animali; si e no qualche leggero indumento, e lenzuola appoggiate, non aderenti. Certo, nelle nostre case moderne abbiamo preso la deplorevole abitudine di render loro la vita difficile, lavandoci spesso, e usando uno strumento di morte come l’aspirapolvere.

Ma possiamo anche venire attaccati dalle pulci dei cani e dei gatti, che, pur essendosi ambientate bene sui nostri amici a quattro zampe, non disdegnano – come seconda scelta – di cibarsi anche di noi.

pulci-gatto

 

Le punture, anzi: è più corretto parlare di morsi, vengono in genere inflitti su zone limitate, a gruppi.

 

Non sono pericolose, certamente è ormai solo un ricordo teorico che, in caso di epidemie di peste, potrebbero trasmettere la Yersinia pestis.

La terapia è semplice: un impacco fresco, una crema cortisonica, una pasta lenitiva a base di Ossido di Zinco… e in pochi giorni la cute ritrova la sua serenità. Naturalmente, se l’infestazione riguarda la casa e i nostri animali, si può procedere con una bonifica ambientale, ma senza drammi e senza realizzare interventi drastici: va bene ricorrere all’aspirapolvere insistendo nei posti meno accessibili, e se necessario usare i comuni insetticidi, con tutte le attenzioni relative alla loro possibile tossicità.

Nessun allarmismo, quindi, ma mettiamo in conto anche questo tipo di possibili incontri, nella nostra vita quotidiana.